Recensione a “Elephant”

Come fanno due collegiali a trasformarsi in killer senza scrupoli? A questa domanda cerca una risposta Gus Van Sant con il film del 2003 Elephant. Sulle note di Beethoven due giovanissimi americani preparano un efferato pluri-omicidio. Sullo schermo, l’immagine di un videogioco in cui l’“eroe” colpisce senza scrupoli tutti coloro che gli si presentano a tiro come fossero birilli; quest’immagine profetizza l’impensabile. Il film si snoda tra corridoi simili a labirinti e si articola in due parti: descrizione e azione.

I protagonisti sono gli studenti. Storie di ordinaria amministrazione: Nathan e Carrie, i due belloni di turno innamorati, Sean, Acadia, Elias, il giovane appassionato di fotografia sino alla fine, Michelle, tipica ragazzina in preda ad una crisi adolescenziale, Britney, Jordan e Nicole, tre ochette alla confluenza tra veline e Britney Spears e… loro, Alex ed Eric, due ragazzi all’apparenza normali che hanno deciso di divertirsi a modo loro. Le loro storie s’intrecciano, mescolandosi in maniera confusa. Da un punto di vista prettamente tecnico la sovrapposizione delle scene è favorito da numerosi flash-back e flash-forward che, susseguendosi nel film, ripropongono una scena da differenti punti di vista. Intorno al ripetersi (per 3 volte) della stessa scena nel corridoio è costruita l’intelaiatura della narrazione. Il tempo che scorre è sottolineato da un’inquadratura fissa sul cielo che va pian piano scurendosi. Sono il giallo e il rosso i colori che dominano. Le due tonalità ritornano più volte; sia nelle maglie dei ragazzi sia, alla fine, in contrapposizione, come colori di morte. Il rosso è il colore del sangue, gialla è invece la maglia di Benny, il ragazzo ucciso mentre inconsapevole vagava per i corridoi divenuti gabbie infernali. Giallo e rosso sono anche i colori dei percorsi programmati per il delitto.

A fare da sfondo sonoro alle immagini, voci e parole confuse che si mescolano costruendo qualcosa di simile a ciò che nella tragedia classica è definito “coro”. L’accavallarsi in maniera indistinta di voci potrebbe essere letto come il riflesso dell’omologata opinione pubblica statunitense. Spesso tali suoni confusi sono intervallati da lunghi e profondi silenzi. Nella parte finale il coro scolastico non è più costituito da parole e discorsi quotidiani ma è fatto di grida e urla disperate. Non dimentichiamo che Alex uccide cantando una filastrocca. Van Sant ha certo fatto riferimento alla celebre pellicola Arancia Meccanica quando in un contesto violento affiancava i toni dolci e melodiosi di Beethoven con tratti comunque accesi e vivaci.

Sullo sfondo, quasi alla rinfusa, i temi più discussi della società moderna: rapporto genitori-figli, anoressia, attacco alla cultura gay (non a caso gli assassini saranno proprio due omosessuali), accusa al lassismo dell’amministrazione americana che permette la circolazione di armi, esaltazione del mito nazista, qui utilizzato a scopo ludico. Ed è proprio il divertimento l’apparente movente della serie di omicidi. In realtà dietro si nasconde un male intrinseco che va ben oltre la noia. Alla fine i due finiscono per uccidere e vendicare antichi rivali e Alex uccide il compagno. “Mai visto un giorno così brutto e così bello!” afferma Alex, che non a caso ha lo stesso nome del folle protagonista del film kubrickiano.

Una breve critica: sebbene il film sia tratto, purtroppo da una storia vera accaduta in Colorado nel ’99, il regista pone l’accento su temi e personaggi forse eccessivamente stereotipati.


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