Re-Ligione

L’anta della mia credenza sbadiglia di fame e di noia. O di sonno satollo. Eppure qualche vuoto c’è, a ben guardare: manca il caffè. Devo giustificare la mia insana curiosità con uno spirito di sopravvivenza, camuffare un lusso da bisogno, spacciarmi per Ulisse quando invece son Pinocchio.

Mi hanno – sì, mi hanno, proprio per me. E per tanti altri me – costruito un centro commerciale, no, IL CENTRO COMMERCIALE, a un centinaio di metri da casa mia. E io non voglio aggiungere ai miei peccati quello della scortesia.

Andiamo? Andiamo pure.

E’ una domenica decembrina e, dopo sei giorni di affanni, occorre una buona e giusta ricreazione. Il verminaio di macchine che mi accoglie all’ingresso di un parcheggio tellurico nega la solitudine nel cuor della terra. Un buon pastore mascherato da addetto al traffico, o viceversa, guida la transumanza di cui faccio parte: al piano superiore ci attendono, consapevoli o meno, gli avventori di questo nuovo tempio. Ad accomunarli non una vaga anima, ma l’ondivago venticello della moda soffiato loro dentro. No, io non mi distinguo mica, sono a loro immagine e somiglianza, vagolo e guato allo stesso modo e le stesse cose. Con in più, ma forse è un meno, la macula del mio scandaloso, inattuale, contraddirmi, dell’ essere con e contro. Già, sono un miscredente praticante che ha bisogno di un 3 x 2 che gli lisci la coscienza. E buggeri il portafoglio. Sono anch’io una farfalla antropomorfa attaccata alle vetrine lucifere dei negozi, è pure mia la calma inquietante dei molti e timidi voyeurs che qui guardano il tempo passare, anch’io accetto l’aiuto degli indigeni psicopompi in tailleurs, stordito da una babele di neolingue e accompagnato da una processione di idoli dall’espressiva inanità a tappezzar corridoi. Mi vergogno un po’ ad accostarmi allo sciame di bimbi-coriandolo che punteggia l’androne, ma è troppo forte anche per me il richiamo dell’immenso Babbo Natale pantocrator che qui domina.

Suvvia, è il dì di festa, alegher!

Sarei ancora là se lo sguardo inquisitorio di quei puttini di carne ossa e griffe non mi avesse accusato di abiura anagrafica. Spero che il vegliardo polare porti loro tanto carbone.

Dagli altoparlanti si diffonde un’omelia che vuole scandire il mio tempo: affascinante nella sua stupidità, mi seduce senza scampo. Le antiche sirene cantavano nenie simili, consapevoli che soltanto la stupidità ammalia di primo acchito. I naviganti avrebbero ben resistito alla loro lasciva bellezza, non alla loro litania inutile e volgare. Mi ritrovo a canticchiar il motivetto di sottofondo: faccio parte anch’io del coro quindi. Mi sono intimamente convinto di aver bisogno di tutto ciò che questa voce dall’alto mi dice, credo anch’io adesso che ho vissuto invano senza tutte queste meravigliose necessità, fino ad un attimo fa a me ignote. Davvero occorre sfamare gli affamati e vestire gli ignudi, ché ignudi ed affamati bisogna sentirsi, sprovvisti. Come continuare a vivere senza quel millepollici schermo sogliola, quel telefonino microbico, quell’acqua diuretica, quell’attrezzo miracoloso che permetterà al mio ombelico di ergersi su addominali michelangioleschi, quella maglia aderente come un tatuaggio? Non avere tutto questo sarebbe una seconda cacciata dal paradiso perduto. Stavolta obbedisco e compro: non mi faccio ingannare due volte. In questa nuova liturgia dell’acquisto, confesso e confido la vanità del mio desiderio al cerimoniere di turno: quel maglione è un’offerta, sacrificale o meno, irrinunciabile. Lo provo: galleggiano sorrisi e fluttuano complimenti: c’è umidità! Tentenno e vacillo, contrastato da quel diabolico e insinuante cartellino del prezzo che serpeggia tra le maglie: 3 cifre, che fare? L’intervento del mio confessore è salvifico e risolutorio: mi istilla il dubbio mortale del domani: sopravvivrei ad un esaurimento scorte?Nulla so opporre alla spietatezza di una corte melliflua: compro.

Assolto, io e l’acquisto, ho ricevuto dopo giusta fila il mio scontrino eucaristico. Sto bene, la mia malcelata bulimia è stata chetata a suon di euro e mi sento stranamente alleggerito. Se non di una colpa, almeno di qualche grammo cartaceo che aveva chiesto asilo al mio borsellino.

Sono in pace con me stesso e mi riconcilio col mondo e con i miei simili, tronfio della compera.

Torniamo? Torniamo pure.

Con la reliquia che occhieggia sul divano, mi preparo un caffè. O almeno vorrei. L’ho dimenticato e quel Gigante – monocolo o mill’occhi che sia, per il quale sono sempre nessuno- mi ha distratto con un imbevibile maglione. Quello che mi serviva, quello che cercavo, non l’ho comprato.

Ormai è tardi. Magari torno fra sette giorni.

Forse.


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