Ray, miti e duplicati

Ray

Titolo originale:  Ray
Nazione:  U.S.A.
Anno:  2004
Genere:  Drammatico, Musicale
Durata:  152′
Regia:  Taylor Hackford
Sito ufficialewww.raymovie.com

 
Cast:  Jamie Foxx, Harry Lennix, Clifton Powell, Kerry Washington, Regina King
Produzione:  Howard Baldwin, Karen Elise Baldwin, Stuart Benjamin, Taylor Hackford

Dato l’indiscutibile successo ottenuto da Jamie Foxx nei panni di Ray Charles nel recente film di Taylor Hackford, non sarebbe ozioso chiedersi quali dinamiche muovano le scelte di giurie che, come di fatto la società, non riuscendo a creare “nuovi miti” che non siano effimeri quasi quanto uno spot pubblicitario, ripiegano, a volte stancamente, su “copie di miti”, duplicati tanto perfetti da rendere ardua, come in un giochino da settimanale di enigmistica, la ricerca di differenze tra l'”originale” e la “copia”.
Ma Ray, il film recentemente premiato con l’Oscar, forse anche sull’onda emozionale creata dalla non lontana scomparsa di Ray Charles Robinson (nato ad Albany, in Georgia, nel 1930 e morto il 10 giugno del 2004), passato alla storia musicale solo come Ray Charles  – dato che di Ray Robinson ce n’era già uno
(lo “Sugar” pluricampione mondiale dei pesi Welter e dei Medi, vissuto tra il 1921 e il 1989) –  ha il merito, come altri film “musicali” che narrano per immagini e suoni le vicende di un musicista, di mostrare anche lati più o meno oscuri o assolutamente quotidiani di personaggi variamente entrati nella mitografia contemporanea in forza di particolari talenti, vite sregolate o, all’occorrenza, morti tragiche e/o premature. Nel 1984 Milos Forman, col suo splendido Amadeus, consegnava anche ai giovanissimi consumatori di rock e canzonette di pessima fattura un'”inedita” versione del genio salisburghese (non certo un duplicato), tanto sboccata e sopra le righe (ma non così lontana dall’originale) da provocare, forse inaspettatamente, sinceri affetti in un pubblico estremamente allargato. Bello scoprire che anche un genio che maneggia le voci di una Fuga con molta più semplicità di quella che il fruitore mette per ascoltarla trascorre poi il suo tempo nelle birrerie o sotto i tavoli a sussurrare infantili oscenità ad una ragazzetta forse un po’ sciocca. Un po’ meno bello, nel caso dell’uomo di Georgia on my mind sapere di come diventò cieco, come e quanto tradì la moglie o di come fu sul punto di annientare per sempre le sue capacità consumando droga (e non convince molto la giustificazione pseudobuonista del film a proposito dei sensi di colpa per la scomparsa del fratellino).
Di rado, e a volte con poca eco, nelle grandi sale vengono rivisitati filmicamente i miti del jazz. E se nel 1991 pochi spettatori scoprivano o riscoprivano il grande Beiderbecke (non a caso morto appena ventottenne) attraverso Bix di Pupi Avati, oggi i più, con Ray, hanno imparato che il meglio di “The Genius” sta ben al di qua della “svolta pop” che ne fece a tratti una macchietta dello show business buona per le imitazioni di Teocoli o per la pubblicità di un pianoforte o, ancora, per un’apparizione con Belushi e Aykroyd in The Blues Brothers. Il film di Hackford infatti, liquidando in pochissime e raffazzonate istantanee l’ultimo Charles, si sofferma, e con buoni risultati, a narrare soprattutto i primi quarant’anni di vita di quell’artista che, forte dell’esperienza del gospel, seppe trarre dalla lezione di Nat King Cole una certa vena romantica ma nello stesso tempo fu in grado di introiettare il rhytm and blues per restituirlo genuino ma nuovo in ciascuna prova. Non è il Charles ecletticamente trasformista a catturare l’attenzione quanto piuttosto le sue epifanie nelle session di Guitar Slim che consegnano ai puristi del jazz il genuino improvvisatore che funambolicamente sa far “cantare” una tastiera così come sa restituirle la sua identità essenzialmente percussiva.

Emanuela Ersilia Abbadessa

 

La trama del film in lingua inglese. 

If a life is merely the sum of its parts, then the story of Ray Charles might read as a tale of personal highs and lows behind a lengthy, award-winning career in the music business.

But for a man who synthesized his struggles, pain and personal darkness as effectively as he incorporated a myriad of musical styles—Jazz, Rhythm & Blues, Rock and Roll, Gospel, Country & Western—into his art, the story reads much differently, transformed from a sequence of events and accomplishments into a compelling and ultimately inspiring journey of a one-of-a-kind genius with a distinct vision…who, along the way, gave the world a new way to hear.

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