«Raccontare per vincere la paura»

In occasione della presentazione catanese del suo libro “Primo Sangue”, volume-inchiesta sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ammazzato dalla mafia nel 1991, Step1 intervista Aldo Pecora, presidente ventiquattrenne del movimento antimafia calabrese “Ammazzateci tutti”. Pecora ci racconta del suo volume e di cosa è cambiato dagli anni delle stragi, e parla dell’importanza della lotta alla criminalità organizzata, soprattutto per i giovani, per sconfiggere la mentalità connivente che la fa da padrona nel Meridione, ma anche dei nuovi scenari criminali e del primato della ‘Ndrangheta, soprattutto al Nord. E che «la paura si vince con la consapevolezza di averla».

Aldo, tu sei il presidente di “Ammazzateci tutti”, la tua è una lotta alla mafia in prima linea e senza filtri. Come si vince la paura?
«La paura si vince con la consapevolezza di averla e senza giocare a fare gli eroi. Si vince parlandone, condividendola con gli altri e facendone una battaglia di civiltà sociale collettiva. Il messaggio ‘ammazzateci tutti’ vuol dire proprio questo. È una provocazione, un’indignazione diretta non solo alla ‘Ndrangheta, ma ai nostri ‘conterroni’, soprattutto giovani».

A proposito di giovani, il movimento è composto prettamente da ragazzi, e l’adesione è massiccia. Sapresti spiegarci come mai? Quali sono i vostri canali?
«Il nostro è un modo particolare di fare antimafia, abbiamo rinnovato gli strumenti della lotta: siamo stati il primo movimento antimafia nato per strada, ma cresciuto su internet. Siamo caratterizzati da questa forma di socialnetworking, che poi diventa reale: modello organizzativo orizzontale, ma diffuso anche sul territorio».

In Sicilia esiste un’altra realta di forte contrapposizione alla criminalità organizzata, AddioPizzo. Che rapporti intercorrono tra loro e la vostra organizzazione nel voler incentivare i giovani a lottare contro la mafia?
«I ragazzi di AddioPizzo sono nati in maniera un po’ diversa dalla nostra. Il loro è un movimento di consumo critico che mette insieme consumatori e commercianti nella lotta contro il pizzo. Il nostro è un movimento antimafia. In Calabria è diverso perché non esiste il pizzo, da noi c’è la mazzetta, ovvero il prezzo una tantum che il cittadino si trova costretto a pagare al mafioso, che in questo modo va a marcare il suo territorio. Con AddioPizzo ci sono dei contatti, siamo associazioni a composizione prettamente giovanile che puntano molto sulla socialità e sull’esteriorizzare le nostre iniziative. Le nostre sono battaglie comuni su binari paralleli: l’obbiettivo è identico».

Sei autore di un libro, “Primo sangue”, incentrato sull’omicidio di stampo mafioso del giudice calabrese Antonino Scopelliti. Era il 1991. Sono passati quasi vent’anni dalle stragi di mafia e dalle morti di Scopelliti, Falcone e Borsellino. Cos’è cambiato da allora nel mondo criminale siciliano e calabrese?
«In Sicilia siete molto più fortunati di noi, dove i comitati delle lenzuola sono nati nel ’92, subito dopo le stragi. In Calabria dopo l’omicidio Scopelliti la società civile non sapeva neanche di esistere, non c’è stata la stessa reazione scoppiata qui dopo Falcone e Borsellino. Voi siete avanti di 10 anni. Dicono che Cosa Nostra si sia addormentata, i corleonesi sono ormai al tramonto. Le mafie di oggi sono altre, quelle straniere e soprattutto la ‘Ndrangheta. Questo è cambiato: dall’omicidio Scopelliti la ‘Ndrangheta è diventata la mafia più forte del mondo».

E nella mentalità della gente?

«La società civile in Sicilia è molto più avanti. In Calabria siamo indietro perché quello che è successo qui negli anni ’90, da noi è cominciato nel 2005. Sicuramente la gente ha più consapevolezza, sa che esiste la ‘Ndrangheta, sa che la gente ne parla e che ha sete di conoscenza. Noi cerchiamo di fare la nostra parte. So che mi pentirò di aver scritto un libro sull’omicidio Scopelliti, ma so anche che andava fatto».

Da ragazzo meridionale quale sei, nato e cresciuto con la consapevolezza che la criminalità organizzata è una realtà, credi ci sia una differenza tra Nord e Sud? E’ vero che la mafia al Nord o non esiste o è solo che semplicemente la gente non la vuole vedere?
«La prima volta che sono andato a Busto Arsizio in Lombardia a parlare di “Ammazzateci tutti”, dove poi è nato il primo coordinamento territoriale extra calabrese, tutti mi dicevano “benvenuto a Gela due”. Ci dicono che almeno in Sicilia avete la mafia, in Calabria c’è la ‘Ndrangheta, ma che in Lombardia ce le hanno tutte e tre. La mafia oggi è al Nord, i cervelli delle organizzazioni sono lì perché mirano al denaro, all’imprenditoria, ai grandi traffici di cocaina e Milano è il centro nevralgico. Poi ci sono le connivenze con la politica e qui interviene Roma. Penso che il problema ci sia ed è anche ora di farla finita con questi stereotipi della mafia solo al Sud, che è un problema nostro, che ci ammazziamo tra di noi. Adesso il Nord sa che la mafia è lì».

Raccontando la storia di Antonino Scopelliti, cosa vuoi trasmettere a chi leggerà il libro?
«Un’indignazione. Nino Scopelliti era un uomo umile, non inseguiva le telecamere, faceva solo il suo lavoro e lo faceva anche sacrificandovi gli affetti più cari. Un giudice costretto a vivere da blindato. La gente deve acquisire questa figura e sapere che in quel Pantheon dove ci stanno Peppino Impastato, Giancarlo Siani, Pippo Fava, Falcone e Borsellino, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, e tante altre vittime della mafia, c’è pure una sedia in cui c’è una persona che se ne sta per i fatti suoi, piccola piccola, che ancora aspetta giustizia».

Oggi presenti il libro a Catania. Ha un valore particolare questa presentazione?

«Nel libro si fa un nome: Nitto Santapaola. Sarebbe stato proprio lui, in base a quanto dicono i pentiti, a portare “l’imbasciata” alla ‘Ndrangheta con la richiesta di fermare il fuoco tra i dui eserciti in contrapposizione a Reggio Calabria, e dire “non sparate più, guardate che a Cosa Nostra interssa il maxi processo”, e quindi il giudice Scopelliti. Palermo, Catania, Reggio Calabria, è un triangolo che mi preoccupa».


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