Quattro Canti, passati fasti e attuali sciagure Palazzo Cardaci imbrigliato in una gabbia

Concorderete che un’impalcatura su di un edificio esistente è generalmente un buon segno. Si realizzano impalcature per il restauro e la messa in sicurezza di edifici pericolanti e malandati che, provvisoriamente, vengono «impalcati». Cosicché, provvisoriamente, ci viene negata la vista del puttino a cui siamo affezionati, quello che ci fa le smorfie ogni volta che gli passiamo sotto, o del cornicione austero, delle persiane antiche scorticate da troppe ore di luce, i gilusii, come le chiamavano i nonni, che hanno ad un sol tempo nascosto e rivelato i passati fasti; non si vede quasi più il portone col batacchio stanco e muto che nessuno più lucida (credo verosimilmente che questo ancora avvenga solo in uno o due palazzi cittadini). Rinunciamo a godere di un pezzo di quel paesaggio sentimentale che ci crea uomini della nostra terra sin da piccoli; tutti quei familiari scenari quotidiani a cui ci siamo abituati da così lungo tempo da essere diventati punti di riferimento comuni, fedeli puntelli della nostra identità. Capita, cari Signori, che la provvisorietà di un’impalcatura sia, però, molto relativa. Molto.

Capita, ad esempio, che uno dei più bei Palazzi del Centro Storico catanese, il Palazzo Carcaci di Via Etnea, cada in uno stato d’abbandono da decenni e che questo sia impalcato da numerosi anni, privando così la città, e ognuno di noi, compresi i tanto benvenuti turisti che passano per i Quattro Canti, punto nevralgico della città antica, di un angolo illustre di Catania. Quale credibilità avrà mai una lezione di decoro urbano se permettiamo che uno dei più bei palazzi del barocco catanese, col suo bel lastricato antico e le due corti, con uno scalone d’onore tra i più imponenti, ora sozzo e putrido, rimanga imbrigliato in una gabbia per anni e anni, senza alcun «inizio dei lavori»? Parzialmente divelte, delle inferriate conservano ancora il polveroso busto di un settecentesco Duca di Carcaci che, accogliente ancora nella sua sprezzatura, è, nella sua cornice precaria, l’incontrastato padrone di casa, come un’icona antica.

Perché accettiamo con tanta indifferenza di venir privati di pezzi di città, a poco a poco? Le impalcature sempiterne del fu Palazzo dei Duchi di Carcaci, ospitano grandi manifesti pubblicitari degni di un Piccadilly Circus. Può essere permesso che nel cuore della Catania antica, sulla facciata di uno dei Palazzi simbolo della grande ricostruzione settecentesca, si venga quotidianamente blanditi da un invito a comprare una tale bevanda o mangiare un tal panino (se va bene)? Quando registriamo simili episodi, accade che, scrollando le spalle, gli occhi al cielo, in un moto di sommo discredito e incontenibile sfiducia, biascichiamo l’antico ritornello: «Povera Patria». Quanto a lungo ci basterà questo?

Come non riprendere qui, facendole nostre, le parole di Guido Piovene su Palermo: «Come una roccia è tutta scavata da grotte, Palermo è scavata di là dalle facciate spesso neutre, di saloni fastosi. Chi si reca da un negoziante si trova con stupore sotto volte affrescate, in saloni pieni di polvere, da cui gli antiquari strapparono i pavimenti, le specchiere, le porte. Era il più bel Settecento che si conoscesse, e lo si vede da quello che ne è rimasto». Ciascuno di noi è chiamato ad essere custode di quanto fu dei Duchi di Carcaci, un pezzo di questa bellezza è nostro, perché determina ciò che noi siamo.

Nel 1968 Mario Soldati si trovava a Catania. Desideroso di fare un giro per vigneti, telefonava al suo amico Ercole Patti che gli consigliava di rivolgersi al Duca di Carcaci. Mario Soldati consegnerà così al suo «Vino al Vino» le memorie di un bellissimo viaggio tra le eccellenze siciliane del vino. Attraversando la vasta campagna che si preparava alla nuova annata, Carcaci recita al giornalista piemontese versi di bellezza popolare che questi così trascrisse:

Quanno l’Eterno Patri era cuntentu
E passiava in cielo cun i Santi,
a lu munno vossu farici un presenti
e di la cruna si scippò un brillanti:
lo posò in mari, in faccia a li currenti,
sciaddottào tutti e quattru li elementi:
Sicilia, la chiamarono li genti:
ma di l’Eterno Patri era u brillanti.

Non c’è Siciliano che, a suo modo, non provi commozione attraversando in un sol giorno tutte le Sicilie che ci sono tra Catania e Palermo. Chiediamoci se il modo migliore di amare tutto questo non sia difenderlo, questo brillante dotato di tutti e quattro gli elementi.

[Foto di Andrea Mirabella tramite Catania]

Redazione

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