Riprendiamo dall'Unità una riflessione sullautonomia delle università, che si è trasformata in proliferazione indiscriminata di corsi di laurea. Non si è tenuto in conto l'interesse dei giovani, abbagliati da corsi di laurea apparentemente nuovi, originali, in realtà sforniti di qualsivoglia dignità culturale
Quanto vale un professore?
L’Università italiana soffre di molti mali, qualcuno dei quali, paradossalmente, è il volto negativo di fatti positivi, meglio, che avrebbero potuto essere il vero punto di svolta verso il necessario, indifferibile rinnovamento della nostra vecchia, gloriosa università. Mi riferisco al ritardato riconoscimento dell’autonomia, concessa nel 1994, pero’ senza definire lucidamente il suo significato e le regole della sua gestione. Su quel provvedimento legislativo, che dopo cinquant’anni soddisfaceva una previsione costituzionale, si accalcarono una serie di equivoci, peggio di errori. Non si volle capire che l’autonomia è un principio positivo, il quale dalla filosofia (basta ricordare la distinzione kantiana tra autonomia ed eteronomia) passo’ nel diritto.
Si disse che autonomia significa la possibilità di fare tutto quanto non è proibito dalla legge. Una vera aberrazione. L’autonomia è un criterio di governo, che richiede regole precise e il rispetto di queste regole: altro che arbitrio! Ancora, non si preciso’ la differenza tra “l’autonomia del sistema” universitario e “l’autonomia delle parti”, ossia i singoli atenei. Ciò sovrappose arbitri ad arbitri, fece perdere al ministero il ruolo della programmazione, verifica e controllo, provocò una vera e propria dissoluzione istituzionale delle singole parti.
Una delle più nefaste conseguenze di ciò è stata la proliferazione indiscriminata dei corsi di laurea, già raddoppiati dalla legge che istituì il sistema segmentato di ciascuna laurea in due percorsi, quello triennale e quello specialistico o magistrale. Le conseguenza sono state devastanti; non si è tenuto in conto l’interesse dei giovani, abbagliati da corsi di laurea apparentemente nuovi, originali, in realtà sforniti di qualsivoglia dignità culturale, di qualsiasi funzione formativa e destinazione professionale.
E’ perciò del tutto giustificato, direi sacrosanto l’intervento del governo per porre un argine al negativo scenario sopra descritto, con la prescrizione di “requisiti minimi” per attivare e mantenere in vita corsi di laurea di efficace validità. Si deve perciò elogiare il ministro dell’Università per questa decisione, forse tardiva. Ciò che non funziona e bisogna chiedere al ministro di modificare sono i criteri adottati per definire il corpo docente indispensabile per l’attivazione e il funzionamento di un corso.
Inseguendo la stupida esigenza dell’oggettività, ci si è affidati alla statistica, addirittura assumendo a metro lo stipendio delle varie categorie di docenti. Cosi’, stabilito che un ordinario vale un punto, un associato 0,7 e un ricercatore 0,5, si è calcolata una media tra questi dati numerici, per ottenere la figura ideale del “docente equivalente”, vale a dire un docente immaginario, qualcosa che non si sa bene che cosa significhi, come se la scienza e l’insegnamento potessero essere ridotti a un gioco matematico.
Ma andiamo avanti. Stabilito che il “docente equivalente” ha peso 0,8, che è il peso minimo della media tra i docenti di ruolo impegnati in un corso, se ne son cavate le conseguenze. E allora, per ottenere il coefficiente minimo servono 6 ordinari, 3 associati e 3 ricercatori in un corso triennale o di base, 4 ordinari, 2 associati e 2 ricercatori per un corso biennale o specialistico.
La raffigurazione che vien fuori del corpo docente è quella della piramide rovesciata, ossia il contrario di ciò che sarebbe logico (una larga base e un ristretto vertice). Ancor più grave è la implicita valutazione delle varie figure dei docenti in comparazione tra di loro. Se può essere giusta la differenza di funzioni in ragione della maggiore esperienza e conseguita autorevolezza, del tutto assurda è una diversità sul piano della didattica, giacché ben può darsi che un ordinario sia meno bravo ed efficace di un associato o di un ricercatore (varrà non dimenticare che per conseguire l’associazione bisogna superare anche una prova didattica). Né basta.
Si dice che bisogna non disperdere le giovani energie e favorire l’immissione in ruolo dei ricercatori (che si vorrebbero trasformare in terza fascia della docenza). Orbene il sistema escogitato contrasta con tali progetti. Se servono più ordinari per garantire la sopravvivenza di un corso di laurea, è facile immaginare che le sedi favoriranno l’avanzamento di carriera a danno delle nuove immissioni.
Insomma un gran pasticcio, un ulteriore caso di effetto negativo di una giusta esigenza mal regolata per ignoranza della situazione e della logica organica di un sistema complesso che non tollera interventi settoriali e demagogici. Per correggere questo errore basterebbe ridurre il fattore di calcolo da 0,8 a 0,7 o 0,6 e si otterrebbe un sistema equilibrato senza favorire parcellizzazioni e dannose proliferazioni. C’è da augurarsi che il ministro sappia compiere un atto di umiltà, che e’ l’espressione della competenza e della dignità.”
[Questo articolo è stato pubblicato sull’Unita’ del 22 novembre 2007 con il titolo: “L’insostenibile peso dell’Universita’”]