Il più bel fior ne coglie, recita il motto dell'Accademia. Ma a questo fiore manca qualche petalo. E il siciliano è pronto a offrirglielo, mettendo a disposizione della nazione alcune risorse del suo lessico e della sua sintassi. Finora non adeguatamente valorizzate da grammatiche e vocabolari
Proposte alla Crusca per una lingua più petalosa Uscire transitivo, camurrìa e matelico sul dizionario
Per cominciare: di questa storia di
petaloso, veramente, non se ne può più. E non tanto per via dell’aggettivo, che ciascuno è libero di vedere come un innocuo strafalcione infantile o come una folgorante intuizione che colma un vuoto linguistico; quanto per la sorte occorsa a Matteo, il simpatico moccioso che l’ha inventato. E che per giorni ha dovuto riscriverlo (in formato gessoso, lavagnoso, foglioso o pennarelloso) per assicurare alla notizia un felice viaggio tra tivvù e social network. Un compito gravoso, per il povero piccolo. E fin troppo burtsimpsonoso.
Però, però, però: se quella benemerita istituzione chiamata
Accademia della Crusca trova il tempo per discutere della petalosità di rose e margherite, non saranno maturi i tempi per chiederne l’avallo per alcune riforme – queste sì – assolutamente necessarie alla nostra lingua? Riforme che hanno già ottenuto il preventivo consenso di un consistente numero di cittadini italofoni; e che però, ingiustamente, sono ignorate da vocabolari e grammatiche?
La prima riguarda un verbo. Che l’italiano conosce, sì, ma non tanto bene. Si tratta del verbo uscire. Gran parte della nazione si limita a usarlo in forma intransitiva; in Sicilia siamo molto più avanti. Perché infatti ricorrere a faticose perifrasi («ora porto la macchina fuori dal garage») quando possiamo disporre di un’espressione semplice ed economica come «aspetta che esco la macchina»? E perché, se qualcuno mi deve una somma di denaro, devo ingiungergli il pagamento a mezzo di ufficiale giudiziario quando potrei magari convincerlo con un tassativo «esci i soldi»? Se l’italiano non si è ancora deciso a sfruttare tutte le potenzialità del verbo – redimendone l’uso transitivo da strafalcione a innovazione – ciò si deve, diciamolo, a un certo pregiudizio verso le espressioni pronunciate con accento siciliano. Tant’è vero che lo stesso rigore non viene di solito usato verso il famigerato piuttosto che nell’immonda accezione disgiuntiva; un’accezione sbagliata, confusionaria, estremamente dannosa per la lingua. Ma che molti sono disposti a perdonare in forza del suo evidente retrogusto milanese.
La seconda riforma riguarda il lessico. Perché mai, mi chiedo, l’italiano non ha ancora adottato la parola camurrìa? Parola che il tempo ha distillato, liberandola dall’etimologia clinica che la collegava, pare, a un’infezione da gonococco; e facendo di essa un termine al quale è difficile trovare un esatto corrispondente italiano. Nessuno dei più citati (seccatura, noia e simili) può infatti esaurirne il significato. La camurrìa assomiglia, è vero, alla seccatura; ma è caratterizzata da una sfiancante ripetitività che la seccatura, da sola, non possiede; e può sì suscitare una sensazione di noia, ma difficilmente si limita a questo; poiché, proprio in forza del suo manifestarsi iterativo, finirà per indurre la vittima a reazioni come l’irritazione, l’ira, o anche peggio.
Ma sul podio delle riforme, in alto, dovrebbe starci una terza parola. E questa parola è matelico. Che credo appartenesse all’aurea lingua parlata nell’Eden da Adamo. E che solo la confusione di Babele ha potuto retrocedere a detrito dialettale di pertinenza esclusiva dei siculofoni. Infliggendole, come pena accessoria, la privazione del diritto ad essere definita.
Proprio così: al momento, tra dizionari e siti dedicati al siciliano,
non se ne trovano due che si accordino sul suo significato. C’è chi prova ad arrivarci affastellando presunti parziali sinonimi che fanno a cazzotti l’uno con l’altro («eccessivamente meticoloso, antipatico, sputasentenze, lezioso, smorfioso, schifiltoso, rozzo, villano»). C’è chi attinge a enigmatici lessicografi del secolo passato (il Nicotra, nel 1883, definiva matelacu «colui che guarda troppo nel sottile caso da non farsene conto, e sempre, e in ogni luogo e con ognuno». Sarà anche bello, ma che vuol dire?). E forse, tra quanti ne discettano, solo un comico siciliano ha sfiorato la verità. Ribattendo come segue alla richiesta di spiegare il termine: «Già la domanda è matelica. Non mi va di rispondere».
Matelico, dunque, sembra un intruglio caratteriale che può essere paragonato alla
ricetta della nonna. Non se ne conosce l’origine, ma si tramanda di generazione in generazione. Ha una lista di ingredienti tassativi, ma lascia al cimento del cuoco un piccolo ma essenziale margine di creatività. E tuttavia, per quanto se ne modifichi il sapore a seconda del palato, il suo gusto resta unico, originale, inconfondibile. Il matelico, infatti, lo riconosci a occhi chiusi. Non c’è dubbio ad esempio sul fatto che in passato, nei concorsi per entrare alle Poste, uno dei requisiti richiesti ai candidati fosse proprio l’esser matelici. Perché solo un matelico poteva assistere con quella indolente indifferenza al crudele strazio che si consumava dentro le code degli uffici postali; sfoderando però un’inattesa aggressività se mai qualcuno, dolendosi dell’indolenza, lo richiamava a una solerzia cui non era affatto tenuto. Come si può chiedere di esser solerte, ditemi voi, a uno che occupa quel posto proprio perché è matelico?
Certo: a differenza delle altre – ammettiamolo – quest’ultima riforma potrebbe rischiare di dividere la Sicilia. Per la spiacevole circostanza che, per i catanesi, l’archetipo del matelico coincide, fin nei minimi dettagli, con
l’archetipo del palermitano. Con l’altezzosa sicumera con cui quest’ultimo (l’archetipo, intendo, non certo il palermitano in carne e ossa) guarda dall’alto in basso chi, diversamente da lui, si arrabatta per far quadrare i conti della propria vita; con l’aria di chi suppone di saperla più lunga, di aver trovato dentro il suo guscio il modo perfetto e definitivo per stare al mondo; con l’alterigia con cui si difende da chiunque si azzardi a intaccare quel guscio. E infatti qualcuno, nella difficile rincorsa a un’etimologia, richiama il verbo greco mantháno: verbo connesso con la dimensione del sapere, del conoscere, del vedere; quasi che il matelico fosse – o almeno credesse di essere – portatore di un senso della vita. Un senso nascosto a chi matelico non è.
Ma lasciamola da parte, per una volta, l’eterna disputa tra la Palermo arabeggiante e la greca Catania: la demografia ci dimostra che, sotto ogni cielo, viene alla luce sempre e inevitabilmente una uguale percentuale di matelici. A questo punto, comunque, la parola passa all’Accademia. E sarebbe spiacevole se quest’ultima si facesse scivolare indolentemente addosso queste ragionevoli proposte. Se rimanesse indifferente a temi così importanti per il futuro del nostro volgare. Se lasciasse appassire questi petali che renderebbero più petaloso il bel fiore della nostra lingua. Non sarebbe un buon segno, no di certo: sarebbe segno – e non sia mai – che l’Accademia della Crusca è anch’essa diventata matelica.