Processo Mori, ascoltato il capitano Ultimo «La perquisizione del covo di Riina non era una mia competenza»

Sergio De Caprio, conosciuto come il capitano Ultimo, è il tenente colonnello che ammanettò Totò Riina, il 15 gennaio 1993. Quello che successe dopo quell’arresto, lo portò sul banco degli imputati. 

La decisione della Procura di ascoltarlo nell’ambito del processo d’Appello all’ex generale dei Ros Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa Notra, per la mancata cattura di Provenzano nel ’95,  mira a fare luce su un’operazione avvenuta a Terme Vigliatore il 6 aprile 1993 in cui fu coinvolto personale del Ros dei Carabinieri. 

Una sparatoria coinvolse il figlio di un imprenditore di Terme Vigliatore, Fortunato Imbesi, inseguito dai carabinieri del Ros che pensarono di aver individuato il latitante Pietro Aglieri, e raggiunto da diversi colpi di arma da fuoco. Poco distante, in un’altra casa a Barcellona Pozzo di Gotto,  trascorreva la sua latitanza anche il boss catanese Nitto Santapaola. Secondo l’accusa la sparatoria sarebbe da inquadrare nello stesso filone della mancata cattura di Provenzano, essendo stata finalizzata a mettere in allarme il boss latitante, per farlo così fuggire.

Tesi che Ultimo ha sempre contestato. «Il 6 aprile 1993 ero nel messinese con un collega del Ros, Giuseppe De Donno – ha dichiarato Ultimo rispondendo, nascosto dietro a due paraventi –  al Pg Luigi Patronaggio -e mentre percorrevamo la litoranea verso Palermo, arrivò la segnalazione che un nostro sottufficiale aveva visto in un’auto un uomo che somigliava al latitante Pietro Aglieri, boss di Santa Maria di Gesù». A quel punto le pattuglie del Ros della zona si sarebbero messe all’inseguimento della macchina che poi avrebbe speronato un’auto del Ros: da qui la sparatoria. Nessun’intenzione, dunque, di creare le condizioni per indurre Santapaola, che verrà arrestato dopo un mese, a lasciare il catanese.

«Dopo l’arresto di Salvatore Riina – ha detto il capitano – io feci una proposta. Anzichè effettuare la perquisizione del covo di Riina dissi che, secondo me, era strategico seguire i fratelli Sanzone, costruttori edili, all’epoca sconosciuti, perchè secondo me così facendo si aveva la possibilità di disarticolare l’organizzazione criminale cosa nostra. Così la pensavo e la penso tuttora. Fu una proposta con questo fine e fu accolta. Per altro la perquisizione non era una mia competenza o del mio reparto». 

Mori è già stato imputato in altro processo a Palermo nel 2006, quello sulla mancata perquisizione del covo di Riina a seguito dell’arresto avvenuto il 15 gennaio del 1993. Al banco degli imputati con lui il Capitano. Vennero rinviati a giudizio per il ritardo con cui venne perquisito il covo. Secondo i pm di Palermo (allora a capo dell’indagine c’era Antonio Ingroia) infatti i carabinieri della territoriale erano pronti, subito dopo l’arresto, ad entrare nell’edificio di via Bernini, ma i Ros e il capitano Ultimo bloccarono l’operazione, chiedendone la sospensione per “motivi investigativi”, ovvero affinichè “si aprisse la possibilità di svolgere ulteriori indagini” evitando in quel momento la perquisizione. Il covo venne perquisito 18 giorni dopo e in quei giorni fu ripulito e vennero persino ritinteggiate le pareti.  I giudici del tribunale hanno assolto i due imputati “perché il fatto non costituisce reato”.

Marta Genova

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