«Nel 2012, l’allora capocentro della Dia di Palermo Giuseppe D’Agata ci chiese di valutare l’ipotesi di attenzionare l’imprenditore Giuseppe Moncada per una eventuale proposta di misura di prevenzione patrimoniale». C’è stato questo al centro della testimonianza di Angelo Bonaffino, il luogotenente dei carabinieri in servizio alla Dia di Agrigento che ha deposto questa mattina nell’aula bunker di Caltanissetta nel corso dell’udienza del processo sul sistema Montante. Un procedimento in cui sono imputate trenta persone. Oltre all’ex presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – già condannato a otto anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico – alla sbarra ci sono politici (tra cui anche il presidente della Regione Renato Schifani), imprenditori e forze dell’ordine: il generale Arturo De Felice, direttore della Dia dal 2012 al 2014, Diego Di Simone Perricone, ex capo della sicurezza di Confindustria e anche il colonnello Giuseppe D’Agata, ufficiale dei carabinieri entrato nell’Aisi dopo l’incarico di capocentro della Dia di Palermo.
«Ricordo che nel 2012 – ha raccontato Bonaffino – venne a farci visita alla sezione operativa di Agrigento. Già avevamo un enorme carico di lavoro di misure di prevenzione patrimoniale e non demmo seguito ad accertamenti su Moncada. In passato, avevamo fatto verifiche da cui non erano emersi elementi di pericolosità sociale. Così – ha aggiunto nel corso dell’udienza – comunicai l’esito al caposezione, dicendo che non c’erano i presupposti per iniziare una misura patrimoniale». Per i pubblici ministeri Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti, D’Agata avrebbe fatto parte del «cerchio magico» di Montante, per conto del quale avrebbe fatto delle investigazioni. Nel corso delle indagini, è emerso che ci sarebbe stato anche l’imprenditore agrigentino Giuseppe Moncada – morto poco tempo fa per un infarto a 59 anni – nel mirino delle indagini pilotate da Montante. Per l’accusa, infatti, l’ex numero uno di Confindustria in Sicilia sarebbe stato «capace di indirizzare il lavoro di alcuni importanti investigatori». Oppure di sfruttare una sorta di rete di spionaggio per l’attività di dossieraggio contro i suoi nemici. Secondo gli investigatori, il suo piano sarebbe stato «funzionale ad attivare procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione al fine di arrecare loro nocumento, atti da considerarsi contrari ai doveri d’ufficio in quanto adottati in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale loro attribuito».
In passato, Moncada ha raccontato di essere stato avvicinato da Giuseppe Catanzaro, l’imprenditore dei rifiuti che qualche anno dopo avrebbe preso il posto di Montante in Sicindustria, pure lui sotto processo a Caltanissetta. Per non avere intoppi nel progetto per un parco eolico a Gela, così disse Moncada, avrebbero dovuto lavorare insieme. «Ha idea del perché D’Agata indicasse il nome di Moncada?», chiede la pm Claudia Pasciuti al luogotenente Bonaffino. «Il colonnello ha parlato di questo imprenditore e ha detto che poteva essere un obiettivo, ma non specifico, se poteva essere collegato con la criminalità organizzata. Non era mai successo che il capocentro desse un nome da attenzionare. Ho saputo de relato che erano state fatte annotazioni sul conto di Moncada». Nel corso del controesame, rispondendo all’avvocato Giuseppe Dacquì, se avesse avuto delle sollecitazioni da parte del colonnello D’Agata sulle verifiche nei confronti dell’imprenditore Moncada, il teste ha risposto: «No. Io mi sono allontanato da Confindustria perché ho detto di non volere avere a che fare con la mafia dei colletti bianchi», disse Salvatore Moncada in un’intervista.
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