Processo Lombardo, il governatore in aula «Non sono solito chiedere voti via sms»

«Abbiamo dichiarato che noi ci difendiamo nel processo e, per farlo, partecipiamo al processo. Per fronteggiare le sciocchezze e le contraddizioni che anche questo collaboratore diffonde da qualche tempo a questa parte». Così il presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo fa il suo ingresso in aula per la prima volta in occasione dell’udienza di ieri mattina del procedimento per voto di scambio che vede imputati lui e il fratello Angelo, deputato nazionale Mpa. Ad essere chiamati a deporre dall’accusa sono stati Luigi Cataldo, maresciallo della sezione anticrimine dei Carabinieri di Catania, e Gaetano D’Aquino, collaboratore di giustizia ex esponente del clan Cappello. Un’udienza fiume per il governatore: durata più di cinque ore e con almeno altrettante pause tecniche per i problemi della videoconferenza con D’Aquino. L’audizione del pentito è stata quindi interrotta e riprenderà alla prossima udienza, il 15 maggio a Bicocca.

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Di poche parole la testimonianza di Cataldo, il maresciallo dei Carabinieri che ha curato le intercettazioni – sia ambientali che telefoniche – riferite all’operazione Iblis, da cui nasce l’indagine nei confronti dei governatore e del fratello. Registrazioni effettuale dal 2007 al 2010 e riferite anche all’ormai noto summit tra esponenti mafiosi e non solo, secondo la procura, nella masseria di Ramacca di proprietà di Giovanni Barbagallo. Lo stesso geologo fotografato dai carabinieri mentre entra ed esce dalla segreteria politica dei Lombardo. «Posso confermare che quel giorno, oltre a Barbagallo, sono stati intercettati tra gli altri Alfio Stiro, Vincenzo Aiello e Pasquale Oliva», dice Cataldo. Tutti esponenti della criminalità organizzata.

Lunga più di quattro ore invece l’audizione di Gaetano D’Aquino. Originariamente membro del clan Pillera, il pentito racconta di aver seguito Salvatore Cappello nella sua scissione e di essere stato nominato da quest’ultimo nel 1992 «uomo d’onore ‘ndranghetista». Al momento della scissione, infatti, per Cappello non era possibile creare una nuova famiglia. E non tutti presero bene la sua decisione di legarsi ai cursoti milanesi di Jimmy Miano. Così Cappello, nei racconti di D’Aquino, decide di formare una famiglia con una decina di uomini d’onore riconosciuta dalla ‘ndrangheta ma non da Cosa Nostra. «Io fui fatto sgarrista – racconta il collaboratore – una specie di capo. Un ruolo che poteva essere assegnato solo a chi aveva già commesso un omicidio». E D’Aquino, dopo l’arresto nel corso dell’operazione Revenge e la decisione di collaborare con la giustizia, di omicidi ne confessa «cinque o sei, non ricordo».

Il suo rapporto con la politica inizia tardi. «Io in vita mia non ho nemmeno mai votato – spiega – Sono stato arrestato qualche mese dopo aver fatto 18 anni e quindi subito interdetto dal voto». Ma, racconta, si accorge presto dell’utilità dei politici. «Lavoravo come sorvegliante per la cooperativa Creattività – dice – e il mio capo, Peter Santagati, lamentava sempre che i politici dell’Mpa pretendevano troppi posti di lavoro per far sopravvivere la cooperativa. Spesso poi facevano assumere gente pregiudicata, che non si faceva nemmeno comandare. Erano comu sucasangu, diceva lui, scusando l’espressione». Durante il suo lavoro, racconta D’Aquino, viene avvicinato per conto di Alessandro Porto: la richiesta era l’appoggio elettorale a Giovanni Pistorio, candidato alle politiche del 2006 con l’Mpa. Quasi contemporaneamente, dice il pentito, di aiuto ai politici parla anche con Salvatore Vaccalluzzo, «uno dei più famosi usurai di Catania», ucciso poco tempo dopo. «Un giorno Vaccalluzzo mi dice di aver ricevuto un messaggio sul cellulare con la richiesta di aiuto elettorale da parte di Raffaele Lombardo – racconta il collaborante – o forse di un suo segretario, non ricordo. Lui non era convinto, perché già in passato aveva appoggiato Lombardo in cambio di un posto di lavoro per la figlia neolaureata in Medicina, ma l’onorevole non aveva mantenuto la promessa». D’Aquino riesce comunque a convincerlo. «Mancava poco, quasi un mese, alle elezioni e non si poteva fare molto – riferisce – Io ho speso quasi 18mila euro per circa 160 voti contati al Turisi Colonna».

Ascolta l’audizione del collaboratore di giustizia Gaetano D’Aquino

Riferimenti temporali ricostruiti a fatica dal pentito. Una sola certezza: la partita Catania-Albinoleffe del 28 maggio 2006. La partita della salvezza e del passaggio in serie A per il club etneo. «Sono sicuro perché quel giorno ci siamo incontrati tutti al bar Renna, a Vulcania, per fare il punto sui voti – dice D’Aquino – e io avevo fretta perché dovevo andare allo stadio». Ma il 28 maggio era anche il giorno delle elezioni regionali. Quelle nazionali sarebbero arrivate qualche settimana dopo, ad aprile. «Non ricordo per quale elezione ci era stato chiesto aiuto, per me sono tutte uguali», taglia corto il collaborante. Incertezze che fanno gioco alla difesa, che ascolta tra gli sbadigli. Il governatore Lombardo ogni tanto prende appunti. «A un elettore verrebbe richiesto l’appoggio elettorale per sms. E’ risaputo che io inoltro inviti a trasmissioni o comizi con i messaggi, talvolta gli auguri per l’onomastico – commenta il governatore fuori dall’aula – ma di certo non mi metto a chiedere voti ad elettori più o meno grandi con un sms. Forse questi signori avranno ricevuto un messaggino che invio gli ultimi tre giorni a uno schedario di circa 20mila numeri». L’audizione di D’Aquino riprenderà comunque il prossimo 15 maggio, a Bicocca. Forse di nuovo alla presenza del presidente regionale che si dice convinto di partecipare a tutte le udienze.


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