L'umiliazione interna contro il Benevento è un semplice incidente di percorso? O il segno che le illusioni di inizio stagione erano perlomeno frettolose? Proviamo a chiederne la spiegazione a filosofi come Russell e Popper. Senza dimenticare da dove vengono tutti i mali del Catania
Pippo Pancaro e il tacchino induttivista Piccolo apologo a margine di una disfatta
C’è una storiella che vorrei raccontare a Pippo Pancaro, l’allenatore del Catania. Che minimizza la figuraccia di ieri col Benevento – sconfitta in casa, per tre a uno, contro un avversario che ha giocato in dieci per un terzo della partita – dicendo che «in cinque mesi una giornata storta può starci. È la prima volta che sbagliamo l’approccio alla gara». È una storiella filosofica che, magari, potrebbe solo servire a strappargli un sorriso. Ma che potrebbe anche, chi lo sa, contenere qualche utile ammaestramento.
C’era una volta un tacchino. Un tacchino tutt’altro che stupido. Anzi: un tacchino con una certa vocazione al pensiero filosofico. In particolare, questo tacchino era convinto della validità del metodo induttivo; di quel procedimento logico, vale a dire, che si muove dal particolare al generale; e che, partendo da un certo numero di esperienze, ne trae conclusioni in grado di dare un qualche ordine alla realtà.
Se il nostro tacchino si fosse occupato di calcio, gli sarebbe probabilmente accaduto ciò che è accaduto a Pancaro: cioè di mettere a punto con un certo successo, dopo i debiti esperimenti delle prime giornate, un determinato modulo di gioco – il 4-3-3, poniamo – e poi di farne il proprio vangelo tattico. Convincendosi che, anche in futuro, sarebbe bastato applicare tale modulo per vivere felice. Il tacchino, tuttavia, non era particolarmente interessato al gioco del pallone. E preferiva applicare il suo induttivismo alla sfera dei bisogni primari, e in particolare a quella del cibo.
Fin dal primo giorno – raccontano i filosofi Bertrand Russell e Karl Popper, che si valgono entrambi, con poche varianti, del medesimo apologo – il tacchino, condotto in un allevamento, osservò che gli veniva dato il mangime alle nove del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre nelle più svariate circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta e il tacchino beatamente concluse: «Mi danno il mangime alle nove del mattino». Per un po’ di tempo, in verità, i fatti sembrarono essere dalla sua parte. Poiché in effetti ogni giorno – in una vasta gamma di condizioni atmosferiche e di contingenze del calendario – il necessario per sfamarsi gli arrivava puntualmente alle nove.
Un bel giorno, però, la sua convinzione ricevette una smentita dalla realtà. E fu una smentita tutt’altro che trascurabile. Poiché era, quel giorno, la vigilia di Natale…
Se fossi in Pancaro, in verità, oggi mi chiederei se, per il suo modo di far giocare la squadra, la vigilia di Natale non sia già arrivata. E non mi riferisco al classico interrogativo circa la possibilità che l’allenatore arrivi a mangiare il panettone (sono dell’avviso, infatti, che lo mangerà); ma solo al fatto che, già da qualche settimana, le conclusioni che si erano tratte a inizio stagione circa la forza del Catania e la bontà di alcune scelte tattiche siano state falsificate da una serie di prove in senso contrario. Tra le quali conterei, per quel che vale il mio parere, tutte le partite giocate dai rossazzurri da almeno un mese a questa parte. Compresa la sofferta vittoria di sabato scorso sul campo della Lupa Castelli Romani.
Ma Pancaro, magari, ai suoi errori starà già pensando. Senza neanche bisogno del mio tacchino. Mentre io d’altra parte, per quanto coscienziosamente cerchi di meditare la lezione del suddetto gallinaceo – che vuole ammaestrarci, in sostanza, a non innamorarci mai troppo delle nostre tesi – non riesco ancora a trovare argomenti in senso contrario a quanto induttivisticamente sostengo da un po’ di tempo a questa parte: e cioè che non ci sia altra strada, per far rinascere la mia squadra, che mandar via la dirigenza che l’ha trascinata fin qui, che ne ha svenduto la storia e che l’ha coperta di vergogna. Una tesi che i dati sperimentali, mi sembra, hanno fin qui corroborato. E per la quale non mi pare sia ancora arrivata la vigilia di Natale.
Mi sento quindi di ripeterlo, pur con tutta la prudenza insegnatami dal tacchino: ceterum censeo Pulvirentem esse pellendum.