Piovono critiche sul codice antimafia «Contrasta la lotta alla criminalità»

«Un codice fatto per pagare i creditori, soprattutto le banche, e liquidare per quanto possibile i beni confiscati per fare cassa». Così ha definito il nuovo Codice antimafia Francesco Menditto, procuratore della Repubblica di Lanciano, durante il convegno Il contrasto ai patrimoni delle mafie che si è svolto stamattina al palazzo di Giustizia di Catania. Invitato da Magistratura democratica, Movimento per la giustizia Articolo 3 e Libera, organizzatori dell’incontro, il magistrato ha illustrato i limiti del testo unico, approvato lo scorso agosto ed entrato in vigore il 13 ottobre, che paradossalmente «rischia di complicare il lavoro di contrasto alla criminalità organizzata».

La legge nasce da esigenze condivise e reali, come quelle di razionalizzare la materia diffusa in varie norme, migliorare la prevenzione e la lotta alle mafie attraverso la confisca dei loro patrimoni e agevolarne la gestione e destinazione. Ma non risponde all’auspicabile potenziamento di leggi storiche come la Rognoni-La Torre, con la quale si indebolisce la mafia colpendone le ricchezze, e la 109 del 1996, che sancisce la destinazione sociale dei beni confiscati. Risulta invece «un testo scritto al chiuso degli uffici ministeriali senza che siano stati consultati gli esperti in materia e per questo pieno di errori», dice Menditto. «Una legge delega approvata in pochi mesi e senza dibattito che pone gravi problemi e nella quale non sono state introdotte misure da tempo richieste e previste anche dall’Unione europea».

Il procuratore ne è convinto: le mafie si combattono non solo con la repressione ma prosciugando i loro patrimoni, «perché – afferma – gli anni di prigione si possono ridurre, invece i beni confiscati non li riavranno mai più. A meno che non si pensi di venderli». È questa una delle misure più gravi previste dal nuovo testo di legge, che amplifica la tutela dei terzi, cioè creditori dei mafiosi. «Le banche – denuncia Menditto – non saranno più chiamate a dimostrare la loro buonafede nel concedere il prestito davanti ai giudici, e questi ultimi si troveranno ad agire come giudici fallimentari che addirittura potrebbero poter vendere i beni per pagare i debiti mentre sono ancora sotto sequestro». E l’attivo, fa notare il magistrato, «non andrebbe reinvestito su altri beni confiscati né potrebbe essere utilizzato dall’Agenzia nazionale – organo su cui è stata centralizzata dal 2010 la gestione dei beni sequestrati e confiscati ndr – ma finirebbe nelle casse dello Stato al Fondo unico giustizia».

Le criticità però non riguardano solo la fase della gestione e della destinazione delle proprietà confiscate. Per il procuratore generale presso la Corte d’appello di Caltanissetta Roberto Scarpinato, il nuovo codice lascia immutati strumenti inadeguati anche per l’individuazione degli stessi beni di provenienza mafiosa. «Si rischia che i patrimoni mafiosi diventino invisibili», dice. «L’individuazione dei beni occultati – spiega – è affidata a indagini di tipo documentale, che presuppongono la richiesta di informazioni all’universo-mondo ed espongono alla fuga di notizie. Per non ostacolare quindi le indagini penali, quelle sul patrimonio si fanno partire dopo, ma nel frattempo i buoi sono già scappati dal recinto: i conti sono stati svuotati, i prestanome allertati e i gioielli e le case venduti».

Per raggiungere dei risultati, quindi, i giudici devono «inventare strumenti che non esistono». «Io e i miei colleghi – racconta Scarpinato – mischiamo strumenti penali e strumenti di prevenzione in modo che i difetti strutturali degli uni siano compensati dai vantaggi degli altri. Grazie a questo abbiamo sequestrato quattro milioni e mezzo di euro, ma è come fare i salti mortali»

«Il legislatore – afferma senza mezzi termini il procuratore di Caltanissetta – aveva la strada tracciata per eliminare i limiti attuali ma l’ha disertata. E noi ci troviamo con dei ferri vecchi, strumenti che non vanno al passo con le modifiche culturali e operative della mafia, e con legislatori che continuano a vivere sulla luna e che spacciano all’opinione pubblica la buona novella che ci hanno messo nelle mani un mezzo per sconfiggere le mafie».

Della stessa opinione Dario Montana dell’associazione Libera, attiva da sempre sul territorio nell’ambito del riutilizzo sociale dei beni confiscati. «Ci stanno prendendo in giro», dice il fratello del commissario Beppe, ucciso dalla mafia nel 1985. «Noi stessi abbiamo chiesto la costituzione dell’Agenzia Nazionale e la redazione del codice antimafia. Ma l’approvazione dipende da quello che c’è scritto. Stesso discorso vale per l’agenzia: è uno strumento bellissimo, ma 30 persone sono poche per farla funzionare. Qual è il passo in avanti?», si chiede Montana, che non ha dimenticato di ricordare le questioni irrisolte nel territorio catanese, come l’affidamento mai rinnovato dell’immobile in via Delpino al Centro Astalli di Catania.

La paura è quella che il nuovo codice ostacoli ulteriormente un cammino già faticoso e che possa offuscare i positivi passi in avanti che in questi anni sono stati fatti. «Purtroppo dietro ogni bene confiscato ci sono anche tante inerzie, opposizioni e la mancanza di volontà da una parte del mondo politico», afferma Armando Rossitto del coordinamento territoriale di Libera Siracusa, che lavora da quasi dieci anni all’apertura della fattoria didattica all’interno dei terreni confiscati alla mafia a Lentini su cui è nata la Cooperativa Beppe Montana.

Il testo unico contro le mafie esiste quindi sulla carta, ma la questione non è per nulla risolta. «Facile capire che il nuovo codice non è un punto d’arrivo ma un cantiere aperto», conclude Simona Ragazzi, segretario di Magistratura democratica e moderatrice dell’incontro. E visti i presupposti non resta che augurarsi che a questo cantiere si possa ancora lavorare.

[Foto di s_falkow]

 

 

Agata Pasqualino

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