Perché non possiamo non dirci buddaci Catania-Messina, tra derby e pescheria

C’è una parola siciliana che abbiamo colpevolmente dimenticato di segnalare, nel giro di proposte di correzioni e aggiunte al vocabolario della Crusca che ha popolato – con densità esagerata, ammettiamolo – le cronache di queste settimane. E questa parola è indubbiamente buddace. Tecnicamente, il termine designa un pesce non molto pregiato, buono a malapena per farci il brodo, e dall’aspetto, in effetti, non troppo intelligente. Un pesce che nuota con la bocca spalancata, con l’aria stupefatta e credula di chi osserva tutto senza capir nulla. Ed è ovviamente capace di ingoiare qualsiasi cosa gli capiti a tiro, anzitutto l’amo del pescatore.

Come sappiamo, nelle dispute di campanile che percorrono la Sicilia – ma che in questo caso attraversano pure lo Stretto – si è soliti dar dei buddaci agli abitanti della sia pur nobile città di Messina; concentrando nella bocca spalancata di quegli sgraziati abitatori del mare tutti gli stereotipi che si vorrebbero adatti a designare i cugini dello Stretto: che ci piace bollare come ingenui creduloni e, in più, come vacui chiacchieroni. E certo, nell’anticipo prepasquale di giovedì pomeriggio che ci vedeva opposti appunto al Messina, nessuno di noi avrà mancato di dare almeno una volta dei buddaci ai cugini peloritani; sconfitti a pochi minuti dalla fine in una gara che avevano raddrizzato e sembravano in grado di portare con sicurezza verso il pareggio. Meno male che sono stati buddaci.

È comodo e divertente, ammettiamolo, dar dei buddaci agli altri. Anche perché cementa il gruppo costituito, in questo caso, dai tifosi del Catania. Identificando, per opposizione, chi a questo gruppo non appartiene; attribuendogli tutti i difetti che i catanesi considerano estranei a sé; tracciando una linea di demarcazione tra la furbizia che sarebbe innata in noi e la stoltezza che alberga fuori di noi. È comodo, e soprattutto non è cosa nuova: perché non si contano, nella storia umana, i gruppi e le identità che, per sentirsi più forti, non riescono fare a meno di qualcuno con cui prendersela. Non sempre accontentandosi, purtroppo, della modesta carica aggressiva di uno sfottò a sfondo ittiologico.

Il fatto è che, di solito, le cose non stanno come ci piace credere. E che, quando il sarcasmo ci fa puntare il dito sul buddace che è fuori di noi, questo forse ci serve a non vedere il buddace che alberga al nostro interno. Forse vogliamo liberarci con una risata sardonica del timore di esser noi, proprio noi, molto più buddaci di quel che vorremmo ammettere. Per non vederci come siamo in realtà, e continuare a crederci migliori di quel che siamo.

Perché è stato da buddaci – cioè da sciocchi, da creduloni, comunque non da spetti – lasciarsi trascinare dalla serie A fino in Lega Pro così come ci è accaduto in questi anni. E da buddaci è stato il continuare a credere – come ha fatto, in questi anni, un consistente numero di tifosi – alle promesse di una società condotta come è stata condotta. E forse sono un po’ buddaci tutti quelli – mi ci metto anch’io che scrivo – che continuano a sperare ancor oggi che vincere un paio di partite, salvarsi dalla retrocessione in serie D, evitare di chiudere questa stagione con la terza vergogna consecutiva, possa essere l’inizio di qualcosa di nuovo. Qualcosa che non vediamo ancora muoversi nell’acqua intorno a noi, ma di cui andiamo in cerca a bocca aperta. Sperando che ci regali di nuovo il gusto del calcio che in questi anni abbiamo perduto.

Il buddace, insomma, forse è dentro di noi. Non tra noi, ma proprio dentro. Perciò non possiamo non dirci buddaci.

Ceterum censeo Pulvirentem esse pellendum.


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