Morad Al Ghazawi, 21 anni, è stato arrestato a Pozzallo - dov'è sbarcato con la famiglia - a dicembre 2015 con l'accusa di terrorismo. Tra finti documenti del Califfato nero e approssimative traduzioni di messaggi in arabo. Il tribunale etneo ha disposto il suo rilascio. Adesso potrà raggiungere la famiglia in Germania
Per la procura era dell’Isis: assolto dopo un anno «Scappai dalla Siria per vivere, non per uccidere»
Dopo un anno e due mesi di carcere da innocente Morad Al Ghazawi rivedrà la sua famiglia. Sono le 20.25 quando, alla fine di un’udienza lunga cinque ore, il tribunale di Catania assolve il 21enne siriano arrestato a Pozzallo a dicembre 2015 e accusato di essere un terrorista dell’Isis e ne ordina la scarcerazione. Pochi minuti dopo la madre Zineb e il padre Nahith stanno già programmando il suo viaggio in nave da Sassari a Genova e il successivo ricongiungimento a Stoccarda, in Germania. Nell’aula intitolata all’avvocato Serafino Famà, ad assistere alla lettura del dispositivo c’è solo Luca Ruaro, il legale che difende Al Ghazawi. Il sostituto procuratore Alfio Fragalà, che rappresenta l’accusa e che aveva chiesto la condanna a quattro anni di carcere, va via prima, quando il giudice si ritira in camera di consiglio per decidere. Un caso mediatico, oltre che giudiziario, che ha occupato diverse pagine del nostro giornale e degli speciali Giustizia di Radio Radicale. La vicenda si è consumata tra un presunto passaporto del Califfato nero – poi rivelatosi una bufala – e approssimative traduzioni di messaggi in arabo. Sullo sfondo, la rivoluzione siriana contro il regime dittatoriale di Bashar Al Assad e una famiglia vicina all’esercito siriano libero, costretta a lasciare la sua città, Daraa, per cercare fortuna in Europa dopo un lungo periodo in Libia.
L’accusa è rimasta ferma sulla sua linea fino alla fine. «L’imputato è inserito in un’organizzazione di matrice terroristica. Lo dicono i suoi contatti Facebook, gli scambi di messaggi con Abu Nader dei Martiri di Daraa che mostrano un’ispirazione consona a quella dell’Isis, le foto con le invocazioni ad Allah che, sebbene non terroristiche di per sé, rispondono a una certa ideologia». «Sono foto dei nostri parenti e amici torturati e uccisi dal regime – prova a spiegare Al Ghazawi, collegato in videoconferenza dal carcere di Sassari – Qualunque siriano le tiene sul cellulare per fare vedere al mondo cosa succede nella nostra terra». Un conflitto a cui ha preso parte anche Mofid Abu Nader, «un amico di famiglia, una persona normale fino a quando non ha dovuto imbracciare le armi per difendere la sua città dai militari di Assad». Niente a che fare con l’Isis né con altri gruppi terroristici, com’era stato confermato al nostro giornale da studiosi italiani e un esperto internazionale. Ma nella requisitoria della procura torna anche la storia del presunto passaporto dell’Isis. «Non si spiega la presenza sul cellulare di quel certificato che, anche se non riporta la foto e il nome dell’imputato, è un documento utile a farsi riconoscere fuori dagli ambiti territoriali d’appartenenza», dice il pm. «Come riportato da MeridioNews, si tratta di uno scherzo goliardico a un cantante siriano che vive in Svezia. Di cosa stiamo parlando? La procura ha costruito un castello di carte», replica Ruaro.
Prima dell’accusa e della difesa a prendere la parola è stato il giovane siriano accusato di terrorismo. A interrogarlo, servendosi della videoconferenza, è il suo avvocato con l’ausilio di due interpreti. Uno, italiano di origine egiziana, è seduto accanto ad Al Ghazawi a Sassari; l’altra è una donna del Marocco che si accomoda tra i banchi dell’aula Famà. Il dialogo tra i quattro è pieno di pause e diverse incomprensioni, spesso interrotte dal giudice, con le traduzioni che risuonano poco chiare anche a causa dei disturbi ai microfoni. «Sono scappato dalla morte in Siria per rimanere vivo e non per fare il terrorista», sintetizza l’imputato alla fine delle sue dichiarazioni. Intanto in aula vengono mostrate alcune prove finite nei faldoni redatti dalla Digos di Ragusa e dalla polizia postale di Catania. Tra queste spunta un video: un uomo travestito da terrorista, con una barba chiaramente finta, tiene in mano due pugnali e un fucile, forse giocattolo, e dice in arabo qualcosa dal tono minaccioso. Fino a quando non esce di scena, sculettando in favore di telecamera. Una chiara parodia insomma.
Così in aula si consumano due letture contrapposte degli stessi materiali. Che presumibilmente hanno portato il giudice ad assolvere il 21enne perché le prove sono insufficienti o contraddittorie. Per un’interpretazione esatta bisognerà attendere le motivazioni, che verranno depositate entro 45 giorni. Dopo la lettura della sentenza, però, Al Ghazawi non conosce ancora il suo destino. A comunicargli la decisione del tribunale è il suo interprete, solo dopo avere parlato con l’avvocato Ruaro attraverso il telefono di servizio. Il giovane siriano si lascia andare a un’esultanza che passa attraverso gli schermi appesi in aula. A centinaia di chilometri di distanza c’è la gioia della sua famiglia e della madre: «Grazie a Dio, si è fatta giustizia, finalmente il mio prezioso figlio è libero».