Per fortuna, io credo nella Befana (Letterina di Natale)

Avevo preparato la letterina e l’avevo data per tempo a un signore coi baffi che mi sembrava proprio perbene. Sono previdente, io.
Non avevo chiesto tanto: mi avevano spiegato che Babbo Natale, quest’anno, è povero; mi avevano anche detto che siamo tanti: che ci sono i tassisti che menano e pure i notai che se lo annotano. E che ci sono i bisognosi, col macchinone fuoristrada o il negozio birichino. Insomma, avevo capito: sono giudiziosa, io.
Anche se mi ricordavo bene che l’altr’anni avevo trovato sotto l’alberello solo i gusci delle noci, e l’ultimo neanche quelli, avevo chiesto appena qualche soldino e il cominciare a ridarci un po’ di speranza e di dignità.
Poi, ho aspettato. Cercando di far la brava, è naturale. Io lo so che bisogna comportarsi bene e crederci tanto tanto, se vuoi che arrivi qualcosa. Io lo so che i bambini sono bambini e Babbo Natale e’ Babbo Natale: ciascuno al suo posto, insomma; ciascuno secondo le sue responsabilità, ciascuno secondo le sue competenze, dicono.

Però si può anche parlare, ci si può anche aiutare. Magari è utile, disturbare ogni tanto il manovratore. E gliel’ho detto, al signore coi baffi, che Babbo Natale ci aveva promesso tanto l’altr’anno. Sono discola, io. E ho memoria, io. Poi e’ successo che hanno cominciato tutti a litigare: non ho capito bene, per la verità. Dev’essere una cosa di grandi. Pero’ vedevo il signore baffi agitarsi tanto e non succedeva niente: non lo so se è perchè non conta tanto lui o perchè Babbo Natale è cattivo o ha cambiato idea su questa storia della ricerca e dell’universita’ come futuro del paese.

E allora ho pensato che nella letterina avrei dovuto aggiungere che i soldini servono per scoprire a quale specie appartengono le renne, oppure cosa mangiano, oppure come si curano. Magari suggerendogli – come si usa adesso – che ci guadagna anche lui, che gli può tornare utile e non è solo cosa che si dice pensando alle favole, Babbo Natale forse si dava una regolata. Sono tarda, io.

Poi, ho capito pure io: Babbo Natale non esiste. E il signore coi baffi non lo so se gli perdona tutto perchè ci crede ancora o è scurnacchiat’ assaje. Il fatto è che neanche se mi avviluppo il cervello nella resina e fodero gli occhi in una fiducia davvero smarrita posso tornare a crederci, a Babbo Natale.
Ma c’è una cosa più grave ancora: non solo non esiste, o forse ha appeso la slitta al chiodo e mandato le renne a pascolare in ordine sparso: vuol farci credere che volano pure gli asini. E allora non ci sto. Sono analitica, io.

Perchè se uso le tabelline, tre più due mi viene dubbio risultato; se mi impegno nel calcolo combinatorio, mi chiedo a che servono i dottori di ricerca: sono così tanti che ormai li prepara il cepu. Se passo all’analisi logica, non distinguo bene le università principali da quelle subordinate ma ne sento l’odorino come quando si brucia la torta (e chi andra’ in castigo?); se il dizionario, mi dico che all’autorità che valuta e controlla preferirei l’autorevolezza. E quando mi tocca la biologia, vedo che hanno allevato le larve: quelle degli enti; e non ho ben capito che esperimento vogliono farci e se per comprovar l’eutanasia oppure il suicidio. Soprattutto, e questo riguarda l’ora di etica, sento una politica che delegittima se stessa: e non è antipolitica il gridarlo; sento aria di
provincialismo, di rese dei conti interne. Di quattro spiccioli, e i precari stanno tutti lì: per programmare bisognerebbe fare un salto nel futuro e non ratificare le calze coi buchi o sancire i buchi sulle calze.
Vedo mancette private: ma speriamo che Babbo Natale abbia sbagliato camino. Sono stanca, io. Qui volano i cervelli, e gli asini siamo noi. Vorrei che fosse Pasqua, ma quella passata: quando le speranze c’erano tutte, ancora.

E’ triste, il Natale: l’allegrezza piena, e la fiducia, le ritrovi affogate quest’anno nella gravezza della disillusione. Non abbiamo più, proprio più, le parole per dirlo; anche, per crederci. Abbiamo solo la forza di sussurrare, giacchè quella di parlare non ci è data: non fate niente.
Lasciateci in pace.

Per fortuna, io credo nella Befana. La Befana è diversa da Babbo Natale: è donna, e pure meridionale. La Befana sfida la forza di gravità e le calze rotte sa cosa sono. La Befana non si veste coi colori della Coca Cola: ha personalità e dignità; un piano di volo non solo in base agli ordinativi, ma con obiettivi precisi e priorità. La Befana un programma ce l’ha davvero e sa distinguere le ciminiere dai comignoli.
La Befana sa cosa è proprio indifferibile; si ricorda che sapere sarà pure patire: ma che questo è già successo, e poi patire è altro da patimento; e che gli dei – che vogliono per definizione e non per conteggio postumo tener saldo il timone del mondo – devono prima o poi abbandonare la tracotanza, l’autolesionismo e l’autoreferenzialità se vogliono ‘ncamminarsi sulla diritta via. Non è difficile e non serve neanche il navigatore satellitare: basta la bussola di Flavio Gioia, o chi per lui, e qualche idea.

Da parte nostra – che dei non siamo, nè ci sentiamo – non cerchiamo più nemmen le stelle, che pure ci avevano promesso: ci basterebbe mantener i piedi in terra, e non in un continuo, estenuante, inutile rullio di una nave che va sempre e non viene mai; ci basterebbe che si smettesse di indicar la luna, quando non si vuole offrire nemmeno il dito. La Befana tutto questo, e altro ancora, lo sa.
La Befana esiste, senza dubbio.
La Befana esiste, speriamo.
Non muriamo i camini, ancora.
Buon anno, intanto.


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