Pep Guardiola, fine di un’era blaugrana

Ma cos’è questo smarrimento, cos’è questa tristezza, cos’è questa nostalgia, che porta a scrivere già oggi di quant’era bello il calcio al tempo del Pep? Com’è stato possibile che un giovanotto di trentasei anni che chiudeva la sua carriera di ottimo calciatore, ma suvvia non esageriamo, nella laboriosa provincia lombarda, si sia trasformato nel cavaliere della tavola rotonda dei nostri sogni, perduti nello stesso momento che si realizzavano? Cos’è il senso di scoramento provocato dalla sua uscita di scena, così dimessa e così spettacolare se mai il contrasto avesse senso? Non è tra i numeri che si devono cercare risposte. Non è nelle coppe vinte, negli scudetti conquistati, nei giri miliardari che ruotano intorno a quello che è “més que un club” scritto rigorosamente in catalano non certo nel disprezzato castigliano. Il Barça dei tempi del Pep è stato altro. Bellezza, fantasia, armonica ricerca della collaborazione tra tutti, sincronia, divertimento, strafottenza giovanile, gusto per la spacconeria, spavalderia dei forti, senso di identità, “esercito disarmato della Catalunya”, Montalban chi altri?, e assieme gusto malinconico del crollo immediato, accoglienza in piedi, applaudendo e col sorriso, della spietata, e per fortuna rara, legge di uno sport, unico tra tutti gli sport, che ti fa perdere anche quando non lo meriteresti. E non c’è stata una singola partita che il Barça dei tempi del Pep abbia meritato di perdere. Quando tutto cominciò andarono a Madrid accolti da un allenatore che aveva trovato la chiave: “difendersi è un suicidio li affronteremo a viso aperto”. Dopo un quarto d’ora erano sotto tre a zero. Mentre tutto stava finendo un altro allenatore disse “se li aspettiamo ce ne fanno 8, se li attacchiamo ce ne fanno 8”. La partita finì 8-0. In mezzo tanta bellezza. Ragazzi non troppo alti né troppo grossi ma rapidi come delle folgori e, ancora, capaci di stare dove dovevano stare: al posto giusto nel momento giusto, questo è un eroe, diceva il texano dei fratelli Cohen. Lo sciame blu-grana percorreva le praterie verdi a folate costanti, con la palla sempre tra i piedi. Aggredivano difese chiuse come gli indiani le diligenze e per quanto potessero metaforicamente sparagli alla fine il postiglione crollava, trafitto da una, due, cento, delle mille frecce scagliate.

Tanta bellezza è stata superiore alle stupide reprimende di coloro i quali, oh quanto pochi per fortuna, si sono attaccati ad un fallo a centrocampo, ad un fuorigioco qualsiasi, ad una simulazione. Alcuni, li stramaledica il cielo, si sono detti annoiati dal gioco orizzontale, così coerentemente intrinseco alla smagliante bellezza del gioco del Barça ai tempi del Pep. Ma oggi anche loro, si sentiranno più soli, attanagliati da quel grigiore che scompariva quando vedevi il Barcà ai tempi del Pep.

Se qualcosa spiace è quello che Pepe (e chi altri?) Carvalho non sia vissuto tanto a lungo da vedere questa meraviglia. Però per fortuna non gli capiterà di rivedere il Barça senza il Pep, ma soprattutto quello di vedere il Pep senza il Barça. Alla guida di un Manchester o di un Chelsea qualsiasi o di, il cielo non voglia, qualche intermilanroma di casa nostra. Purtroppo è nelle cose e a poco serve la consolazione che ci dava Kurt Weil, con la sua consapevolezza che “la bellezza, in fondo, cresce anche oggi; come sempre del resto”. Forse è in previsione di questo che Manuel Vázquez Montalbán fa morire il suo centravanti. Perché aveva aiutato ad usurpare il ruolo degli dèi, che in altri tempi guidarono la condotta degli uomini senza neanche arrecare conforti soprannaturali, ma soltanto la terapia dell’irrazionale. Per quello il Pep doveva morire verso sera.

Roberto Salerno

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