Il ventiseienne dottorando in fisica spopola in libreria con La solitudine dei numeri primi, opera prima insignita del Premio Strega. Un romanzo scorrevole, ma che non emoziona come dovrebbe e precipita nel finale
Paolo Giordano tre metri sopra il cielo
Esattamente dov’è che finisce l’arte e comincia una buona campagna pubblicitaria? Sono quasi tre mesi, ormai, che “l’Italia che legge” si pone questa domanda, e cioè dallo scorso quattro luglio, data dell’elezione de La solitudine dei numeri primi ad opera vincitrice del celeberrimo premio Strega. D’altra parte, se l’obiettivo di chi ha pubblicato la prima fatica letteraria del ventiseienne Paolo Giordano (il colosso Mondadori) era il wildiano “Nel bene o nel male, purché se ne parli”, decine di interviste televisive e partecipazioni a festival letterari in giro per il Paese, con annesse seicentomila copie vendute, sanno proprio di successo senza precedenti negli ultimi anni (se si escludono i vari “Tre metri sopra il cielo parte prima, seconda e decima” – ma questa è un’altra storia).
E se la domanda successiva è “Come fa un dottorando in fisica sbucato fuori dal nulla a spopolare in libreria senza scrivere di acceleratori di particelle, motociclisti e/o liceali belli e dannati?”, i molti estimatori del giovane talento piemontese probabilmente replicheranno che non importa il come, quel che conta è il risultato. Allora forse non ci abbiamo messo abbastanza impegno, perché qual è il risultato di questo romanzo proprio non ci riesce di capirlo.
Funziona come in molte delle storie che sentiamo a telegiornale: un uomo e una donna “difficili”, ciascuno con alle spalle un trauma infantile che l’ha segnato a vita decidendone il destino; due vite parallele, quelle di Mattia ed Alice, che ci vengono presentati da bambini e che vediamo crescere e diventare adulti. Due “numeri primi gemelli”, che “Se ne stanno al loro posto nell’infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri”, numeri “sospettosi e solitari” che incarnano quel senso di inadeguatezza e di malessere riscontrabile in innumerevoli uomini e donne del nostro tempo, e che, assieme ai continui paragoni con la fisica e la matematica cui Mattia sottopone i piccoli e grandi eventi della sua esistenza, sono emblema del legame indissolubile che secondo Giordano lega l’universo dei numeri a quello degli esseri umani. Un uomo e una donna che potrebbero anche innamorarsi, e forse lo fanno ma “Mattia pensava che lui e Alice erano così, due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero. A lei non l’aveva mai detto”. E allora una storia potenzialmente fitta di scambi di emozioni, di dialoghi del corpo e dell’anima, diventa un romanzo dei silenzi, delle cose taciute, dei segreti mai svelati. Diventa un libro scorrevole e facile da leggere, ma non abbastanza emozionante, non quanto dovrebbe; un libro in cui la semplicità del linguaggio stride con la complessità interiore dei suoi protagonisti, che potessero parlarsi tra di loro come il loro autore parla a noi, risolverebbero ogni dilemma in un baleno e sarebbero felici.
È chiaro, comunque, che abbiamo a che fare con un’opera ben lontana dalle sdolcinatezze cui Federico Moccia e colleghi ci hanno abituati di recente: ci troviamo di fronte al dolore di persone, un’anoressica zoppa e un autolesionista, tutt’altro che perfette, né bellissime fisicamente né psicologicamente stabili. Se non altro è da apprezzare l’onestà di chi scrive, che non pretende di raccontarci favole a lieto fine in stile hollywoodiano, né d’altronde cerca a tutti i costi di rifilarci l’affresco sociale, sebbene la presenza di luoghi comuni del nostro presente (l’emarginazione, i disordini alimentari, il bullismo, l’omosessualità…) a tratti ci fa credere il contrario. E chi sottolinea che la prima edizione dello Strega fu vinta da Ennio Flaiano con Tempo di uccidere, con un secondo e un terzo posto occupati da personaggi del calibro di Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante, forse non ha tutti i torti, considerate le incongruenze di questo “acquerello di un non-luogo dei giorni nostri” un po’ sbiadito e cupo, i suoi personaggi secondari descritti con enfasi per poi sparire senza lasciare traccia, il contatto mancato tra i suoi protagonisti, l’assenza, in loro, di crescita, della più piccola evoluzione, e il finale-non finale in cui nessuno di questi esseri umani speciali che non riusciamo mai a conoscere fino in fondo trova la soluzione ai suoi drammi, ma anzi, sembra continuare a fuggire, e a fuggire in solitudine. Metafore e similitudini saranno anche evocative, ma rimane la sensazione che manchi la parola “Fine”, e manca persino il “Ti amo” che tanto riteniamo abusato e che invece abbiamo bisogno di sentir pronunciare, altrimenti ci aspettiamo un seguito che chissà se verrà mai scritto, e ci viene da desiderare di poter scuotere quelle anime in pena, ché le persone non sono numeri soggetti alle leggi matematiche: sono particelle libere di scegliere quale direzione imprimere al loro movimento.
Un’opera prima è un’opera prima. E se riesce a portare gli italiani in libreria, forse è il caso di augurare buona fortuna al suo autore. Dopotutto, a parte Dostoevskij, nessuno nasce Dostoevskij.