Nemmeno una settimana è durato lo sgombero del Laboratorio Zeta, in via Arrigo Boito a Palermo. In quell’occasione si verificarono scontri tra forze dell’ordine e manifestanti e il bilancio fu di tre fermi, non convalidati l’indomani, di cui uno già assolto, e cinque feriti.
Domenica scorsa, di mattina, i ragazzi del centro sociale, operante dal 2001 in un immobile di proprietà dell’Istituto autonomo case popolari, hanno abbattuto le porte murate e sono tornati, per usare le parole di Totò Cavaleri operatore del centro, “a casa loro”. Una “casa” gestita sin dal 2003 assieme a una trentina di rifugiati sudanesi del Darfur, richiedenti asilo politico, che da allora ci abitano stabilmente. Gli stessi sudanesi però hanno deciso non rientrare, perché temono una nuova evacuazione e passano le notti in tenda. L’ordinanza di sgombero, risalente al 22 aprile scorso, fa seguito a una denuncia da parte dell’associazione Aspasia, vincitrice del bando per l’assegnazione del bene, ma impossibilitata a realizzarvi un asilo nido privato, per via dei locali occupati. A nulla sono servite le trattative degli ultimi mesi e l’offerta all’associazione di un altro locale, già adibito ad asilo, da parte del Comune.
Ma cerchiamo di ricostruire le fasi dello sgombero.
Le operazioni sono iniziate alle 8 del mattino del 19 gennaio scorso, con l’arrivo dell’ufficiale giudiziario scortato da cinque camionette, tra polizia e carabinieri. Nel giro di un’ora si è sparsa la voce, e un centinaio di ragazzi dei centro sociali e della sinistra antagonista hanno riempito la strada. L’irruzione è avvenuta tra le urla, l’incredulità e le proteste dei presenti. Alle telecamere e ai giornalisti è stato impedito di accedere ai locali. L’ingresso alla via è stato presidiato dai vigili urbani. Sul posto sono arrivati rappresentanti politici, sindacali, del mondo del volontariato e della società civile. All’arrivo del camion con a bordo i due operai incaricati di murare gli ingressi, sono partite le prime schermaglie. «Gli abbiamo sgonfiato una ruota», confiderà a fine giornata un dimostrante. La situazione sembra rientrare, ma è chiaro a tutti che si tratta di un’estenuante guerra di nervi. Si alzano i primi slogan contro il Sindaco e la Polizia. Entrano in azione i pontieri: parlano col Prefetto, col responsabile di piazza, con gli agenti in tenuta antisommossa. Vengono fatte passare, per accertarsi delle condizioni dei sudanesi, Antonella Monastra e Nadia Spallitta, entrambe consiglieri comunali. Il massimo della tensione si raggiunge quando Fabrizio Ferrandelli, capogruppo Idv al Comune, e due operatori del laboratorio, salgono sul tetto ed esibiscono uno striscione di protesta.
Di pomeriggio avviene lo scontro. Intorno alle 17 i carabinieri spostano un loro mezzo posteggiato all’incrocio con via Sgambati, creando un varco. Alcuni ragazzi cercano di penetrare ma la reazione è immediata. Parte una carica fino a via Notarbartolo. Sembra finita e invece continua fino a via Umberto Giordano. Trecento metri di carica. Il traffico si blocca. Minuti di panico e di paura. Subito dopo sono visibili i segni degli incidenti: l’asfalto sporcato dai resti dei loti tirati dai dimostranti, la sirena dell’ambulanza, il ghiaccio sulla testa. «I miei amici mi stanno accompagnando al pronto soccorso – ci dice, ancora sotto shock Enrico Montalbano, colpito alla testa e alle gambe – di autoambulanze ce n’è solo una». Arrivano, per sedare gli animi, padre Gianni Notari, Giovanni Impastato, fratello di Peppino, e il preside della facoltà di Lettere Vincenzo Guarrasi. Ma l’assemblea permanente continua e la Cgil, per bocca di Adele Cinà della segreteria cittadina, protesta per la mancata convocazione della Consulta territoriale per l’immigrazione. Dopo ore escono Antonella Monastra e Nadia Spallitta. Alle 23 anche Angela Giardina, Totò Cavaleri e Fabrizio Ferrandelli scendono dal tetto.
E i sudanesi? Rifiutano i locali abbandonati e privi si servizi igienici di piazza della Pace offerti dall’Assessore alle Risorse Immobiliari Giovanni Di Giovanni, e decidono di dormire all’aperto, a pochi metri dalla loro “casa”, accampati in tende da campeggio offerte dai ragazzi.
A distanza di una settimana e nonostante l’edificio sia stato rioccupato, loro, i sudanesi, continuano a dormire all’addiaccio su un marciapiede, uno di loro è stato persino ricoverato. Hanno ricevuto minacce razziste e temono un nuovo sgombero. Chiedono alle Istituzioni una risposta alla loro legittima richiesta di asilo; risposta che ancora non è arrivata.
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