È a capo del centro di informazione sul Kurdistan a Catania, dove rappresenta anche il movimento delle donne curde. MeridioNews l'ha incontrata per farsi raccontare la resistenza all'Isis, tra cui si distingue l'impegno femminile, e cosa lega una battaglia così geograficamente lontana al capoluogo catanese
Ozlem Tanrikulu, presidente dell’ufficio curdo etneo «Siamo un popolo che difende la propria terra»
«I primi immigrati curdi sono arrivati a Catania nel 1997 e da quel momento la città è stato uno snodo nevralgico». Ad affermarlo è la presidentessa dell’ufficio etneo di informazione sul Kurdistan, nonché rappresentante in città del movimento delle donne curde,
Ozlem Tanrikulu. «So che a Catania, dopo l’attacco dell’Isis al Kurdistan, i comitati di solidarietà alla causa del mio popolo si sono moltiplicati», si inorgoglisce Tanrikulu. Che in questi giorni sta girando la Sicilia – è stata ospite di un evento organizzato alla Palestra Lupo – per informare sulla ricostruzione della città di Kobane e per incentivare nuovi percorsi di solidarietà per tutto il territorio curdo. «Spesso si parla solo di Kobane, ma le condizioni di tutto il Paese non sono migliori», spiega a MeridioNews.
E interviene sulla situazione attuale. «La città è in fase di ricostruzione, il popolo ha cercato di riattivare per prima cosa i servizi scolastici e quelli sanitari, ma ripartire non è facile». A rendere complicata la restaurazione dello status antecedente agli attacchi terroristici dell’Isis sono soprattutto «le mine inesplose che rimangono sottoterra e continuano a uccidere molti civili», racconta. Nonostante ciò, «numerose famiglie che erano scappate stanno facendo ritorno a casa, perché vogliono ricominciare a sostenere il valore della democrazia partecipata». Un obiettivo che il popolo curdo ha ricercato anche con la resistenza armata, secondo un «processo laico che Kobane ha attuato per non fare il gioco di chi usava la paura e il terrore», sottolinea Tanrikulu.
E parla anche della lotta armata che ha visto protagoniste le donne curde, le stesse che Tanrikulu rappresenta nell’ufficio catanese Uiki. «Il loro impegno esercita molto fascino in Occidente ma – sottolinea – per noi è la normale presa di posizione all’interno di una società prettamente matriarcale e femminista». Anche se l’idea di indossare la divisa militare «è nata nelle donne dopo il fallimento di iniziative civili». Le combattenti, aggiunge Tanrikulu, «hanno tentato la via dell’organizzazione politica e dell’avvio di percorsi di formazione al valore della pace. Nodi a cui si aggiunge la particolare predisposizione mentale e del cuore della popolazione femminile a proteggere la propria città». Una questione che rientra «in tutto e per tutto nella consapevolezza di responsabilità del proprio territorio che è presente in tutte le donne del Medio Oriente».
La stessa responsabilità che invece «il Kurdistan non si poteva aspettare dalle potenze occidentali», sostiene la presidentessa di Uiki. La motivazione che sta alla base «di uno scarso impegno delle grandi forze del mondo risiede nel fatto che il Medio Oriente ha per loro importanza soltanto se da loro stessi controllato, per via dell’enorme ricchezza del luogo». Un tentativo che affonda le radici «già nella prima guerra del Golfo del 1991 e continua anche negli anni a seguire». Ma la questione, per Tanrikulu, è di relativo interesse. Perché «quello che conta è che i popoli si organizzino dal basso per difendere la loro terra. Come è successo a Kobane e in tutto il Kurdistan», conclude.