A quasi un anno dalla condanna di primo grado per il rappresentante provinciale di Cosa nostra etnea Vincenzo Aiello, riparte il procedimento per l'uccisione di Angelo Santapaola e il suo guardaspalle Nicola Sedici, avvenuta nel 2007 nell'ex macello in contrada Passo Martino di cui MeridioNews pubblica per la prima volta un'immagine
Omicidio Santapaola, processo riparte in appello «Alla base del delitto c’è una insanabile frattura»
«Vincenzo Aiello era ben consapevole e partecipò attivamente al duplice omicidio, poi si adoperava per nascondere le tracce». L’ergastolo con cui è stato condannato in primo grado il capo provinciale della famiglia mafiosa catanese di Cosa nostra viene racchiuso nelle 208 pagine delle sentenza di primo grado della corte d’Assise presieduta da Rosario Cuteri. Aiello, oggi recluso al carcere duro nel penitenziario di Parma, nel settembre 2006 «si trovava un gradino più sotto rispetto a Vincenzo Santapaola e Pippo Ercolano, che venivano lasciati nell’ombra per non essere esposti a possibili ripercussioni giudiziarie». Passato quasi un anno dalla condanna il processo riparte in secondo grado con la riapertura del dibattimento ottenuto dagli avvocati. Il boss potrebbe essere scagionato, secondo i suoi legali, Laura Biondo e Marilena Facente, da una approfondita analisi dei tabulati telefonici e sopratutto da una nuova testimone.
Il 26 settembre 2007 all’interno di un ex macello in contrada Passo Martino nell’hinterland di Catania, di cui MeridioNews per la prima volta mostra una istantanea, trovavano la morte Angelo Santapaola e il suo fidato guardaspalle Nicola Sedici. A ricostruire i fatti davanti i magistrati portandoli sul luogo del delitto, è stato il collaboratore di giustizia Santo La Causa. L’ex reggente ha individuato tutte le persone che presero parte all’agguato, indicando Orazio Magrì come esecutore materiale. «Sparò nella nuca sinistra di Nicola, che non si accorse nemmeno di morire, perché colpito da dietro. Poi toccò ad Angelo dopo qualche secondo, gli esplose un colpo al petto spingendolo per due metri e poi gli sparò in testa». I riscontri al racconto di La Causa, per i giudici, «derivano dalle intercettazioni telefoniche precedenti e successive al duplice omicidio». Le stesse, che tramite le celle d’aggancio dei cellulari, la difesa cercherà di sovvertire «dimostrando che Aiello si trovava altrove». Ulteriori indicazioni sull’assassinio potrebbero anche arrivare dalle dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia: Fabrizio Nizza, Davide Seminara e Alfio Ruggeri.
«E’ fin troppo palese che Aiello si attivò per nascondere le tracce del duplice omicidio» proseguono i giudici nelle motivazioni. Un ruolo chiave per l’imputato principale, sarebbe quello successivo all’agguato. I corpi dei due uomini vennero infatti ritrovati carbonizzati e irriconoscibili dentro un casolare nel territorio calatino di Ramacca, definita nelle motivazioni «una delle roccaforti di Aiello». In questa contesto sarebbe entrato in scena Salvatore Di Bennardo, lavagista di Palagonia che, stando alla tesi dell’accusa, si sarebbe attivato per lavare le tracce di sangue dalla macchina con cui i due corpi vennero spostati dall’ex macello. Di Bennardo, parente del boss Alfonso Fiammetta, in primo grado è stato condannato a 3 anni e 4 mesi per favoreggiamento aggravato. «Non mi dissero a chi fecero lavare la macchina – affermò in udienza Santo La Causa – ma non poteva essere restituita in quelle condizioni perché apparteneva a un carrozziere amico di Orazio Magrì».
Era una persona prepotente che non si curava delle regole
Alla base del duplice omicidio c’è la gestione della famiglia mafiosa da parte di Angelo Santapaola che all’epoca dei fatti ricopriva il ruolo di reggente. «Persona prepotente» che secondo il pentito Ignazio Barbagallo «non si curava delle regole dell’organizzazione» sopratutto per quanto riguarda la gestione delle estorsioni. Un boss in costante preda ad «onnipotenza mafiosa». Di cattivo grado era vista anche la sintonia che la vittima aveva raggiunto con i padrini palermitani Sandro e Salvatore Lo Piccolo che inizialmente cercavano un contatto con Enzo Santapaola, figlio di Nitto. I capimafia del mandamento di San Lorenzo, arrestati due mesi dopo l’omicidio di Santapaola, ignorarono come «da sempre a Catania i reggenti sono vittime di tragedie interne».
A temere per la propria vita sarebbe stato anche lo stesso Aiello al culmine di una serie di omicidi. Prima quello di Giuseppe Scionti nel 2006, Giovanbattista Motta il 3 luglio 2007 – entrambi affiliati al clan Mazzei – e quattro giorni dopo quello di Nuccio Aurora nel quartiere Nesima, ritenuto vicino proprio ad Angelo Santapaola. Un delitto che aveva il doppio fine della tragedia per mettere in cattiva luce Aiello e sancirne la morte. Il piano mortale venne però anticipato.