Omicidio Naro, il racconto di quella sera al Goa «Sono scappato per paura, ma lì dentro non c’ero»

«Questa vicenda mi ha segnato moltissimo…io ero lì quella sera e nessuno aveva capito che mentre lavoravamo stava morendo un ragazzo, non ho potuto fare nulla per evitarlo». Di tutti i testimoni ascoltati questa mattina dal giudice della quarta sezione penale Ottavio Ziino, Salvatore Spina è quello da cui traspaiono commozione e trasporto. L’unico, su cinque uno dopo l’altro interpellati. La sera di cui parla è quella del 14 febbraio 2015 e quel ragazzo per cui oggi si rammarica tanto è Aldo Naro, il giovane medico che si trovava alla discoteca Goa per festeggiare il carnevale con un gruppo di amici. Una serata finita però in tragedia, con la sua morte e, ad oggi, diversi procedimenti in corso per stabilire cosa accadde. Spina si occupa della biglietteria e all’occorrenza dà una mano al bar. Si trova, però, al guardaroba insieme alla sua fidanzata dell’epoca, che si occupava dei cappotti, quando sente qualcosa di strano. «Alcuni ragazzi in fila per riprendere i giubbini hanno iniziato a dire fra loro “ah si stanno litigando, si stanno litigando”, perciò ricordo di aver uscito fuori la testa per vedere, insieme a me c’era anche uno dei proprietari, Massimo, che è corso subito in mezzo al tafferuglio per sedare ogni cosa». Si tratta di Massimo Barbaro, a processo con l’accusa di favoreggiamento personale, insieme ad altri due imputati che rispondono di rissa, Francesco Troia e Antonio Basile.

Spina se ne ritorna invece verso la biglietteria. «La serata era sul finire, la musica era quasi staccata, sembrava tutto tranquillo, non c’era stato troppo caos». Aveva persino incontrato Aldo, prima che accadesse tutto, «gli si era staccato un paio di volte il braccialetto di carta delle consumazioni ed era venuto al bancone per prenderne uno nuovo». Non può immaginare, Spina, che di lì a qualche ora rivedrà quello stesso ragazzo steso fuori dalla discoteca, privo di sensi. «Ricordo benissimo la scena, era sdraiato in obliquo con la testa verso il giardino, uscendo a sinistra. Non ho visto però qualcosa di particolare, lui era fermo. Accanto lui il gruppo di amici e a fianco una ragazza con una bottiglietta d’acqua – racconta il teste -. Ho chiesto cosa avesse, lo avevo riconosciuto subito, dissero che stava male e stavano provando a farlo riprendere, pensai che avesse bevuto troppo». Non lo aveva neppure collegato al parapiglia precedente scoppiato all’interno della sala da ballo, quello a cui lui non si era neanche avvicinato.Quando vede arrivare l’ambulanza quasi si rasserena, ma poi la notizia di quello che era successo, che lo scuote moltissimo.

È diverso l’atteggiamento mostrato invece in aula da Giuseppe Militano e Filippo Zito, anche loro sentiti come testimoni oggi, che quella sera lavoravano come buttafuori abusivi. Il primo è nipote del boss dello Zen Carmelo Militano, che per l’accusa avrebbe gestito il giro di buttafuori abusivi imposti alla discoteca. Ma di mafia, imposizioni o minacce non c’è neanche l’ombra, nella sua testimonianza. Al momento del fatto racconta di essere fuori, a occuparsi dei biglietti, mentre altri quattro colleghi, amici suoi chiamati da lui per dargli una mano con la sicurezza e abusivi a loro volta, stanno attenti a evitare che i ragazzini si imbuchino scavalcando dai muretti. Insieme a lui, quindi, sparsi in diversi punti dell’esterno ci sono anche lo stesso Zito, Pietro Covello, Placido Lucchese e Andrea Balsano, che si è costituito ed è stato condannato a dieci anni. «C’era molta confusione. Sono entrato dentro solo quando sono arrivati i soccorsi, avevano detto che c’era un ragazzo a terra e sono andato a guardare, durante la rissa io ero fuori. Poi ho mandato via i miei amici che erano abusivi, io sono rimasto fino alle cinque anche perché aspettavo i soldi».

«”Ti volevo avvisare che quel ragazzo è morto”, mi dice poi per telefono Franco Meschisi – racconta ancora -. Presi i soldi sono andato a casa, ho chiamato gli altri amici che avevano lavorato, mi hanno raggiungo vicino alla mia abitazione e ho consegnato loro la paga, 40 euro a testa, 50 per me. Non ricordo commenti o discussioni su quello che era successo». Ma com’è possibile? «Balsano non mi ha detto che era stato lui, però mi ha detto che si era ritrovato coinvolto nella rissa come sicurezza, invece è stato colpito, così io so, qualche schiaffo, qualche pugno…In un secondo tempo mi ha detto “io un calcio l’ho dato”, erano tutti mascherati questi ragazzi, era carnevale, non sapeva a chi di preciso lo aveva dato, “io ho colpito, se realmente sono stato io vado a consegnarmi”. Io non lo posso sapere se è stato lui, ma gli ho detto che in quel caso doveva consegnarsi – continua il teste -. Io mi sono sentito preso dal panico, non c’è un motivo specifico, non ero presente nel momento della rissa e non avevo colpa, ma il trauma c’è stato». Anche se dichiara di non aver visto nulla, si rende comunque irreperibile. Almeno fino a quando Balsano non si costituisce.

Qualcuno però che quella sera qualcosa in più sembra vederla c’è. È Filippo Zito, anche se la sua testimonianza è forse la più condita di «non ricordo»e «non lo so», tanto da disconoscere a un certo punti alcuni ripetuti passaggi che vengono letti in aula della sua deposizione ai carabinieri del 18 febbraio 2015. Eppure a distanza di quattro anni ricorda alla perfezione gli abiti degli amici che lavoravano con lui quella sera, il colore e il modello delle scarpe, ma nulla di preciso rispetto a quello che succede ad Aldo Naro. «A un certo mi sono voltato, ho visto che il mio amico Pietro Covello non c’era più e che la porta di emergenza alle mie spalle era aperta, quindi sono entrato dentro per cercarlo e capire cosa stava succedendo – racconta -. L’ho visto cadere dagli scalini del privé insieme al ragazzo che poi è morto, poi cercava di farlo riprendere, insieme a qualcun altro lo ha preso sotto braccio e lo ha portato fuori. Il ragazzo l’ho visto steso a terra ma cosciente, sembrava che attorno la situazione si stesse calmando. Covelli gli diceva “apposto, non è successo niente”, tranquillo insomma. Non so se qualcuno lo ha colpito, sono già passati quattro anni». Ma come si può dimenticare una scena del genere? Quattro anni prima i suoi ricordi erano però piuttosto lucidi rispetto a quanto visto.

«Ho notato che Andrea Balsano sferrare un forte calcio alla testa del ragazzo, Covello assistendo al calcio si alza e gli dice “ma che cazzo fai” spingendolo via», le sue parole. E ancora: «Andrea era nervoso, troppo confuso, diceva “ma che è successo? Non lo so nemmeno io”. Mi disse che aveva sferrato un calcio in faccia al ragazzo mentre era steso a terra vicino alle scale del privé, me lo ha detto quando stavamo tornando a casa allo Zen, eravamo spaventati e tremavamo». Tutte frasi che a sentirle oggi il teste non riconosce come sue, respingendole. Non ricorda, non capisce, è elusivo e ambiguo. «Non lo confermo quello che ho detto. Non ho visto litigare, non ho visto che si picchiavano. Stavamo mettendo la pace». Ma per cosa la pace se non c’era nessuna rissa?


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