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Abortire in Sicilia, quando l’ostacolo è la politica: «Troppi medici obiettori e la Regione tace sulla pillola fuori dagli ospedali»

«Abortire resta ancora una procedura altamente inaccessibile ed è una questione puramente politica». Ne è convinta Eleonora Mizzoni di Obiezione respinta, il progetto transfemmista – che fa parte della rete Non una di meno – nato con l’intento di mappare l’obiezione di coscienza in Italia. Un dato che manca ancora nell’elenco ufficiale, pubblicato per la prima volta dall’Istituto superiore di sanità, delle strutture pubbliche o convenzionate (ospedali, ambulatori e consultori) che praticano gli abortiIn Sicilia sono 25, ma l’Isola continua ad avere la percentuale più alta di obiettori: l’85 per cento dei ginecologi e il 69,8 per cento degli anestesisti. «Un diritto che, a 47 anni dall’entrata in vigore della legge 194, resta ancora negato a molte donne», ribadisce Mizzoni a MeridioNews. «L’obiezione di coscienza resta l’ostacolo principale, la punta dell’iceberg in un sistema che genera un forte stigma sociale nei confronti delle donne che – aggiunge l’attivista di Obiezione respinta – vengono sottoposte anche a pratiche violente e illegali».

Dall’ascolto del battito del feto alla presenza dei comitati Pro Vita negli ambulatori fino alla generale incuria. «Abbiamo raccolto anche dalla Sicilia molte storie di donne lasciate sole a sanguinare a cui – racconta Mizzoni – non sono stati nemmeno somministrati antidolorifici prima dell’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica». Per questo, da tempo, Obiezione respinta porta avanti la richiesta di eliminare l’obiezione di coscienza. Fino al 1978, dal 1930 c’era il codice Rocco che considerava l’aborto «un delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe». Un reato a tutti gli effetti, punito con pene dai due ai cinque anni di carcere. Poi, da anni di lotte, il 22 maggio del 1978 è stata approvata la legge 194 che è all’articolo 9 prevede la possibilità «per il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie» di dichiararsi obiettore di coscienza, cioè di non praticare «procedure e attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza». In ogni caso, come previsto dalla legge, nessun operatore sanitario esonerato dall’assistere la paziente prima e dopo l’intervento. «Ma l’obiezione di coscienza – si chiedono da Obiezione respinta – vale davvero anche per l’aborto con il metodo farmacologico? Nel caso della pillola, quali sarebbero le attività? Prenderla da un cassetto e tirarla fuori da un blister?».

La Regione Siciliana, come molte altre, non ha deliberato nulla sulla possibilità di deospedalizzare la somministrazione della pillola RU486. «In Francia, ma anche in altre nazioni – si legge nel report Medici del mondo – l’Ivg farmacologica si esegue nei consultori e perfino a domicilio». Nell’agosto del 2020, una circolare ministeriale ha aggiornato le Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza (con mifepristone e prostaglandine): l’aborto farmacologico è possibile in day hospital e il limite per la somministrazione del farmaco è stato esteso da sette a nove settimane. «E questo è sicuramente un bene – fanno notare da Obiezione respinta – perché prima l’Ivg farmacologica era poco utilizzata anche perché nella maggior parte dei casi, quando la donna si rivolgeva alla struttura, i termini erano già scaduti. Ci sono però regioni, tipo la Sicilia – lamenta Mizzoni – in cui in molti ospedali restano seri problemi di accesso a questo servizio». Nonostante, per legge, non può esserci l’obiezione di struttura: ciascuna deve assicurare l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza e sono le Regioni a dover controllare anche predisponendo la mobilità del personale per garantire il diritto a ogni donna. «Per questo, da anni – aggiunge Mizzoni – chiediamo che vengano fatti dei concorsi per soli medici non obiettori».

Il primo ostacolo all’applicazione della legge 194 resta la difficoltà di reperire informazioni su metodi e tempistiche dell’Ivg. «Le donne sono ancora costrette a chiamare le strutture sanitarie o – afferma – addirittura ad andare direttamente con tempi che si allungano e scadenze che incombono». La procedura prevede che la donna, dopo avere fatto un primo accesso in ambulatorio e avere stipulato un certificato, debba prendersi una sorta di pausa di riflessione di sette giorni. Poi, se con l’ecografia si riesce a datare la gravidanza entro il limite delle settimane previsto, si può procedere con l’Ivg. «Che, purtroppo, come abbiamo messo nero su bianco in molte denunce presentate anche all’ordine dei medici e degli infermieri – racconta Mizzoni – resta ancora una pratica durante la quale le donne subiscono molti tipi di violenze. Dopo i grossi problemi di accesso iniziale, chi riesce ad accedere ha un’esperienza spesso pericolosa e traumatica. E questo – conclude l’attivista di Obiezione respintanon è accettabile in un Paese che dovrebbe garantire alle donne il diritto di abortire».


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