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«Non è solo una storia di cambiali»
Più di venticinque anni fa, la notte del 5 gennaio 1984 a Catania, veniva ucciso Pippo Fava, giornalista colpevole di aver voluto fare il suo mestiere fino in fondo. Nel suo ultimo anno di vita, Pippo Fava aveva fondato e diretto “I Siciliani”. All’indomani della sua morte, piuttosto che rompere le righe e darla vinta a chi aveva ucciso il direttore, i ragazzi della redazione decisero di andare avanti con il giornale. Ci riuscirono per circa due anni, poi alle prese con le difficoltà economiche, il giornale fu costretto a chiudere.
Oggi, a 25 anni dalla morte del giornalista, alcuni di quei giornalisti, che ne avevano continuato la battaglia (Graziella Proto, Elena Brancati, Claudio Fava, Rosario Lanza, Lillo Venezia), all’epoca componenti del Cda della cooperativa che gestiva il giornale, rischiano di perdere le loro case. Compresa la casa natale di Pippo Fava, già oggetto di una notifica di pignoramento, relativa ad una sentenza di fallimento della cooperativa, che giunge adesso, dopo più di vent’anni, a chiedere il conto. Della vicenda abbiamo parlato con Lillo Venezia, che ne è uno dei protagonisti.
Come si è svolta tecnicamente la vicenda ?
Dopo 25 anni, l’iter del fallimento della cooperativa Radar, editrice de “I Siciliani”, è giunto a compimento, così ci viene chiesto il conto, per rimborsare le imprese creditrici di allora, che a loro volta non esistono più, essendo ormai liquidate. Il conto è però molto salato, anche per gli anni trascorsi, e siamo quasi intorno ai centomila euro. Determinante all’ammontare della cifra, sono stati gli interessi, che la corte fa maturare a partire dal 1994, ben dieci anni prima della sentenza definitiva.
Come mai questa richiesta è giunta così inaspettata, e dopo così tanto tempo ?
La richiesta non è stata inaspettata: sapevamo che prima o poi sarebbe arrivata, inaspettata è la cifra, che ci ha spiazzati moltissimo. Noi peraltro avevamo più volte invitato i liquidatori a vendere i macchinari, ma il liquidatore non lo ritenne opportuno adducendo che non si sarebbe ricavato una lira, ciò nonostante tra pezzi in acciaio e piegatrice, si sarebbero potuti recuperare anche dieci milioni. La cifra è francamente esosa, noi nel momento in cui è arrivata questa botta, abbiamo subito chiesto una transazione di circa il 70% della somma, ma il liquidatore è stato abbastanza duro, facendoci ugualmente arrivare il precetto di pagamento. Anche le motivazioni della sentenza sono alquanto offensive, e palesano un atteggiamento prevenuto nei nostri confronti. Ci si accusa non tanto di non aver chiuso il conto, quanto di esser stati superficiali e di aver rasentato addirittura la fraudolenza.
Determinante per la chiusura del giornale, è stata l’assenza di investimenti pubblicitari. Vi aspettavate una latitanza tale, da parte degli investitori privati?
All’epoca avevamo dei collaboratori, ci rivolgevamo soprattutto agli enti istituzionali. Su idea del direttore, facevamo soprattutto degli inserti promozionali per i Comuni. Ma non erano sufficienti, mentre la pubblicità dei privati era quasi inesistente eccetto qualche amico stretto. L’assenza della pubblicità privata c’era già con Fava, ed eravamo coscienti del fatto che la pubblicità sarebbe continuata a mancare. Noi tentammo di procurarcela, anche attraverso la Lega delle cooperative, e le grosse agenzie pubblicitarie. Ma nulla, soltanto tanti sorrisi e nulla di più. La nostra speranza erano così le vendite. Dopo la morte di Fava, decidemmo di far vivere ancora il giornale, anche ingenuamente, perché credevamo che ci fosse una società civile molto forte, e che il giornale avrebbe potuto avere un futuro, contando su una base abbastanza larga di lettori. Non avevamo fatto i conti in maniera esatta perché non ci fu un riscontro sufficiente a mantenere in vita il giornale.
Come vi muoverete adesso, di fronte a questa richiesta?
Noi abbiamo creduto opportuno considerare questa vicenda come qualcosa di più che una questione personale, ma come qualcosa che dovrebbe interessare la società civile. Tutto parte dall’assassinio di un giornalista per mano della mafia. Così si è pensato che le associazioni antimafia e della società civile potessero capire il problema e lanciare una sottoscrizione, come sta effettivamente avvenendo grazie innanzitutto all’impegno di TeleJato e dell’associazione Rita Atria cui stanno seguendo tante altre associazioni e piccole testate. La fondazione Pippo Fava, non direttamente legata al giornale I Siciliani, ha ritenuto essa stessa di contribuire, aprendo un conto corrente apposito per favorire la sottoscrizione e su cui stanno già affluendo parecchi contributi. Per favorire la sottoscrizione, sia noi, che degli amici di Milano, stiamo inoltre organizzando vari eventi sia musicali che teatrali. Tra questi, il 20 agosto metterò in scena uno spettacolo teatrale, Foemina Ridens, scritto proprio da Giuseppe Fava. Il calendario delle manifestazioni dovrebbe chiudersi il 15 settembre, giorno del compleanno di Giuseppe Fava, con una notte bianca organizzata dalla fondazione Fava, durante la quale saranno trasmessi anche alcuni film da lui sceneggiati, e mai trasmessi.
Lei pensa che la Catania di oggi sia migliore o peggiore di quella di 25 anni fa ?
Personalmente credo sia peggiore, e di molto. Siamo in una città assolutamente individualista. Il catanese in questo momento sta mostrando la peggiore immagine di sé. Senza voler per questo fare di tutta l’erba un fascio, vedo molta strafottenza, il catanese si sente in diritto di violare qualsiasi legge. La situazione è peggiore, perché allora noi stavamo facendo una battaglia di cultura, non dico che quella battaglia si stava vincendo, però stava penetrando. Anche dopo di noi ci sono stati momenti di grande spinta culturale, adesso siamo invece alla desolazione.