Non è solo Rock’n’roll

Forse oggi la parola rock non si usa più: impazzano i sottogeneri e proliferano consumi segmentati. Permane comunque, soprattutto nelle casseforti dell’industria, l’idea della musica come fatto generazionale, di riconoscimento e di identità. Che ad un certa età (tutte le età, bisognerebbe dire) crescere dovrebbe significare uccidere il padre. Doverosamente. Ma la rivolta contro i padri  è ormai diventato esercizio umiliante, in quanto inutile: ritrovarsi per casa un genitore che ascolta la stessa musica del figlio (o viceversa, poco importa), e che magari si fuma le stesse sigarettine truccate è, onestamente, cosa che non aiuta, sottraendo possibilità di conflitto e quindi di crescita.

Nel 1954, a parte Elvis che incide il suo primo 45 giri (era il 19 luglio e il brano era “That’s alright“) in effetti succede anche dell’altro: ad esempio, il 3 gennaio cominciano le trasmissioni regolari della tv italiana. La tv entra, per non uscirne più, nelle case degli italiani. E si potrebbe tristemente aggiungere che sempre in quell’anno compare per la prima volta sugli schermi della neonata televisione Mike Buongiorno. Come ultima chicca, aggiungiamo che nel mese di marzo di quell’anno ferale Giulio Natta isola una macromolecola che da origine alla plastica moderna: il polipropilene. Nuova plastica, cioè leggera, colorata, resistente, impermeabile, riproducibile e a basso costo. Volendo perdere tempo in fantasticherie alla Matrix, si potrebbe dire che queste coincidenze temporali, come in un dionisiaco gioco degli specchi, ci riportano brutalmente al mondo della materia: posto dove la musica, sotto ricatto industriale, diventa un paio di scarpe da fare indossare alla gente. Il rock’n’roll nasce insieme alla plastica ed alla televisione: perfetta casualità del mondo… 

“Cambiano i tempi, cambia la musica, cambiano le droghe…” si sente dire da qualche parte nel film “Trainspotting”, ma per alcuni non è così. Allo scoccare dei cinquant’anni il rock – pesantemente condizionato da un’ industria della musica che sa vendere sogni, rivolte e desideri trasformandoli in oggetti di consumo e mode- è ormai diventato un genere che, come nel mito greco, cammina verso il futuro, ma con la testa rivolta al passato. I discografici, nella loro endemica mancanza di fantasia, si sprecano nel definire come “nuovi” Led Zeppelin (bene che vada) ogni nuovo gruppo di scocomerati  che si affaccia nel parco buoi. Il “nuovo” look da adottare (almeno fino a pochissimo tempo fa, che le novità ormai si autodivorano con velocità da spot pubblicitario) è/era fatto da tagli di capelli e suoni che sembrano usciti da una macchina del tempo ferma agli anni settanta. Quelli più fessi, però. Le novità, poi: tanto per dirne una, il miserabile revival degli anni ottanta che negli ultimi tempi ci ha spezzato le palle ha creato uno stile, l’electroclash (tenetene conto: è solo una minestra riscaldata, come tutte le altre). E le reunions poi, una più squallida dell’altra: pance, calvizie o capelli ingrigiti. Ma soprattutto stanchezza e mancanza di vergogna. Speriamo solo che nel prevedibilissimo e prossimo revival degli anni ’90 non venga tirato in ballo il Cavaliere canterino che sappiamo, e le sue canzoni da posteggiatore…
E siccome il tempo passa per tutti, nel 2004 si sono quindi commemorati –e gli scontati cori funebri dei critici del settore hanno magnificato l’evento- i cinquant’anni di una puttana che oltre a se stessa ha venduto cifre enormi di jeans, fatto aprire milioni di bar e smerciato miliardi di cartine (fine weight rolling papers, possibilmente).  La stessa che, nonostante le rughe e gli introiti, cerca ancora sfrontatamente di vendersi adescando minori e sterilizzando parole come passione, ribellione, gioventù. Volendo porre opportuno freno  a quest’indecente scoprirsi di tombe, a quest’ammorbante levarsi di morti, più che festeggiarne il compleanno, bisognerebbe piuttosto cominciare a pensare ad un dignitoso ricovero del rock’n’roll in qualche ospizio. Possibilmente uno di quelli gestiti da suore sado-igieniste, che almeno fans senza cervello, critici senza orecchie e rockstars senza vergogna familiarizzerebbero con il sapone, se non con la grammatica.

Cinquant’anni fa, i giovani ancora non esistevano. Cioè si passava direttamente, sostando per qualche anno in una specie di limbo vivificato dal servizio militare o da altre forme di servaggio (pubblica via, riformatorio, università e apprendistato in genere) dalla spensieratezza dell’adolescenza alle responsabilità dell’età adulta.
I sociologi, quelli che magari passando direttamente dall’infanzia alla cattedra universitaria non sono mai stati giovani, dicono che negli anni cinquanta, all’origine dell’invenzione dei giovani ci fu una formuletta semplice: boom economico+scolarizzazione di massa. A questa formula aggiungiamo l’autoaffermazione e l’indipendenza cercati attraverso la definizione di una identità collettiva cementata da comportamenti e consumi condivisi in fatto di abbigliamento, gergo e musica. E ancora: l’identificazione con l’artista (generazionale, sociale, i temi cantati), il genere musicale scelto come bandiera e – l’ancheggiare di Elvis insegna – gli ormoni messi in musica.
I giovani iniziarono così – oltre che a darsi da fare sul sedile posteriore dell’auto di papà- a spaccare poltrone di cinema e teatri. Questi fiori sbocciarono in Inghilterra, nel 1957, durante la prima tournèe di Bill Haley: tre (nel senso di tre: proprio tre, e basta) accordi di chitarra e un tipo soprappeso con un tirabaci che cantava qualcosa su un orologio matto erano bastati per fare andare fuori di testa il nuovo target da mungere. Adescati dalla passione i giovani, come gli agnelli a Pasqua.
Ma anche questo faceva sicuramente parte della costruzione di una identità: ritrovarsi fianco a fianco durante qualche rissa fa sicuramente crescere il senso di appartenenza. Il rock si nutriva (e questi verbi vanno coniugati anche al presente) di contrasti generazionali. Frank Sinatra  diceva che “Il rock’n’ roll è una musica che piace ai giovani perché non piace ai loro vecchi”, e visto che siamo in vena di citazioni, il nostro aggiungeva simpaticamente che “il r’n’r è la musica marziale di tutti i delinquenti sulla faccia della terra”. Sempre puntuale e preciso, il vecchio Frankie blue-eyes. All’orizzonte si prospettava una inedita categoria mercantile…
Per quanta riguarda poi quegli slogan che sanno fare la fortuna di un’industria, il famoso “droga sesso e rock’n’roll” è uno degli esempi più fulgidi. L’inventore di cotanto motto non è uno sciroccato frikkettone: si tratta – udite bene- del famigerato Edgar J. Hoover, capo della Cia durante gli anni belli. Il quale, per soddisfare le ossessioni puritane sue e della maggioranza silenziosa, spiegò che le giovani anime ribelli erano traviate dai pruriti del sesso, frastornate dai rumori del rock’n’roll e allucinate dall’uso della droga. Bel colpo, e slogan splendido, che tuttora continua a ingrassare discografici e a far piangere mamme. Il rock’n’roll fu così la prima subcultura interamente imperniata sui giovani: negli anni ’50 la nascente figura del teen-ager divenne così l’espressione di uno stile di consumo. Ovvero: l’adolescenza è uno strumento del marketing.
 
E poi il rock è ecumenico, ed è anche una costellazione, o un pantano. Dipende… Ma da qua a diventare classe sociale ne passa. Prima ci sono cataste di jeans da indossare, milioni di dischi da comperare, infinite mode da consumare. E lo strumento usato è quello ideale, quello che perpetua gli schiavi: l’uso del tempo libero e il di/vertire banalizzato a merce e usato come camicia di forza. I sentimentalismi di tutte le anime belle che dietro la schiena nascondono le manette del carceriere sono prevedibili, inutili e funzionali.
Il rock, piuttosto che essere una dimostrazione di quanta libertà sia possibile ottenere all’interno della società delle merci, è un esempio di come l’industria riesca ad ingannare chi sfrutta. Attenti alla musica, quindi: molte volte sotto vesti d’arte e sentimento nasconde la falsificazione, lasciando solo il ricordo delle passioni. Se i rockers avessero preferito l’analisi alla retorica, avrebbero tentato di organizzare una rivoluzione, anziché ballare su pop songs di tre minuti: la stessa aspettativa di vita di un insetto.


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