Miriam ha 23 anni ed è ivoriana. Nella prossime ore, all’interno della camera mortuaria del cimitero di Cala Pisana a Lampedusa, dovrà effettuare il riconoscimento del cadavere del figlio. Il bambino di un anno e mezzo che è morto nel naufragio di uno dei due barchini colati a picco sabato nel canale di Sicilia. Complessivamente sono 57 i superstiti, 33 i dispersi e due i cadaveri recuperati: oltre a quello del bimbo, c’era anche quello di una donna il cui marito si trova, al momento, all’hotspot di Lampedusa. «Piccola, sembra potersi spezzare da un momento all’altro». È così che Miriam viene descritta da chi le sta accanto in questo momento. «Non ha più lacrime e ha lo sguardo sperso, non ha più neanche forze».
La giovane originaria della Costa d’Avorio viaggiava, con in braccio il figlio, quando il barchino, partito da Sfax (in Tunisia), s’è all’improvviso inabissato. Per ore e ore, nel mare in tempesta, ha continuato a tenere stretto tra le braccia il figlio. Così lei stessa ha raccontato ai mediatori culturali e ai poliziotti della squadra mobile della questura di Agrigento. Quando poi non ce l’ha fatta più, perché era stanca e sentiva freddo, lo ha affidato a un giovane connazionale che era in mare accanto a lei. La 23enne è stata salvata dai militari della guardia costiera e portata a bordo di una delle due motovedette intervenute. Il connazionale che aveva in braccio il bambino, invece, è stato issato sull’altra unità di soccorso.
Soltanto nella tarda serata di ieri la donna ha saputo che suo figlio era morto. Fino ad allora, come ha spiegato ai mediatori culturali che hanno ascoltato la sua testimonianza, aveva creduto che il bimbo e il suo connazionale fossero in un’altra struttura o forse in ospedale. La donna è arrivata a Lampedusa con la prima motovedetta, mentre il connazionale, a bordo della seconda, è arrivato circa mezz’ora dopo. L’uomo, in braccio, aveva ancora il piccolo, ma senza vita. La procura di Agrigento, intanto, ha aperto un’inchiesta sul naufragio.
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