«Autoinsignitosi paladino dell’antimafia, Montante ha esteso tale etichetta ai suoi amici e sodali, dichiarando mafiosi i suoi avversari, in difetto di qualsivoglia prova di mafiosità. Si è assistito, dunque, ad un golpe linguistico, con sovvertimento del significato convenzionale delle parole, nel quale “mafia” e “antimafia” non indicavano più, rispettivamente, un’associazione che risponde ai requisiti dell’articolo 416-bis del codice penale, e l’insieme delle iniziative di reale contrasto alla predetta associazione. Ma “mafia” era diventato il luogo nominale nel quale confinare tutti gli eretici alla religione di Montante, mentre “antimafia” era diventato il santuario degli osservanti morigerati del pensiero di Montante, che utilizzavano le audizioni in commissione antimafia, i convegni sulla legalità e la sottoscrizione di codici etici quali pratiche liturgiche, dirette ad assicurare, più che l’ascesi, l’ascesa sociale e l’occupazione di posti di potere».
Così la giudice Graziella Luparello conclude le motivazioni alla base della condanna con rito abbreviato di Antonello Montante, ex numero uno di Confindustria Sicilia, a 14 anni di carcere per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e all’accesso abusivo a sistema informatico, tre anni e sei mesi in più rispetto a quanto aveva chiesto la Procura distrettuale di Caltanissetta guidata da Amedeo Bertone. Lo scorso maggio, insieme a lui, sono stati condannati anche l’ex ispettore di polizia Diego Di Simone a sei anni e quattro mesi, il funzionario della questura di Palermo Marco De Angelis a quattro anni, l’ex funzionario dello Sco Andrea Grassi a un anno e quattro mesi, e l’ex comandante provinciale della guardia di finanza di Caltanissetta Gianfranco Ardizzone a tre anni.
A differenza di quanto più volte eccepito dalla difesa di Montante, la giudice non alcun dubbio sull’esistenza di una vera e propria associazione a delinquere, come «una catena di montaggio con ruoli prestabiliti» in cui «ciascun anello era consapevole di far parte di un’alleanza stabile». Ne hanno fatto parte Di Simone e De Angelis con l’obiettivo di accedere abusivamente al sistema di dati delle forze dell’ordine per creare dossier sui rivali di Montante. Ma ne hanno fatto parte pure il colonnello Ardizzone, il maggiore Ettore Orfanello e il luogotenente Mario Sanfilippo, tutti finanzieri responsabili di aver orientato verifiche fiscali e indagini penali all’interesse di Montante, in cambio di trasferimenti o posti di lavoro. Al punto che nelle motivazioni si parla di «sistematica deviazione dell’attività istituzionale della Guardia di Finanza».
«Montante non gestiva potere, ma lo creava», scrive Luparello, richiamando tra le intercettazioni più efficaci quella in cui l’ex finanziere poi assunto all’Eni, Nazario Scaccia spiegava: «Antonello era il potere assoluto a Caltanissetta… l’antimafia è un grande business… ha portato avanti gente, un coglione e un deficiente come a Crocetta u purtau a fare u presidente della Regione… un Lumia che campa in Senato da novant’anni sulu parlannu sulu stu fattu dell’antimafia, l’antimafia… chiddru nun capisce un cazzo eppure è senatore da non so quanto tempo. Lui (Montante ndr) con la sua campagna, col suo protagonismo e quant’altro ha sottratto questo argomento ai detentori storici di questo argomento ovvero la magistratura… lui al massimo del suo potere andava a influire anche sulle cariche della magistratura, andava ad agire direttamente sulle Forze dell’Ordine».
Un’associazione che, per la giudice, è stata «un autentico potere occulto, estremamente pericoloso, non parallelo a quello statuale o regionale, ma ad esso perpendicolare, in quanto intersecava le più diverse istituzioni, ai diversi livelli, finendo per controllarle, condizionarle o comunque influenzarle».
Di questa struttura a Montante viene riconosciuto il ruolo di «direzione, promozione ed organizzazione». E non solo. È anche colui al quale «va doverosamente riconosciuto il diritto d’autore sulla nascita dell’Antimafia confindustriale quale forma di business utile a garantire un posto ai tavoli che contano». E per restituire allo stesso tempo l’origine e i tratti essenziali di questo brand, la giudice risale a un’audizione di Montante nel 2005 in commissione nazionale antimafia. «Come associazione – denunciava davanti ai parlamentari – ci sentiamo troppo sovraesposti. Noi non siamo gli specialisti dell’antimafia o delle organizzazioni criminali. Non sappiamo dove inizia e finisce la mafia, sappiamo solo che chi uccide è mafioso». E ai deputati che gli chiedevano informazioni più precise su queste minacce, rispondeva: «Ci rendiamo conto che c’è una cappa che ci schiaccia, ma non sta a noi individuare qual è la cappa che ci schiaccia. Ci sentiamo molte volte braccati: lei mi chiede da che cosa, non lo so. Ho un’azienda al Nord […]; ebbene, quando esco dallo Stretto mi sento più libero, non so perché. Non abbiamo pressioni dirette, subiamo azioni trasversali».
Un dire e non dire, un sollevare «vaghi spettri», che Luparello accosta al «teatro dell’assurdo», «ove i personaggi beckettiani attendono Godot senza sapere chi sia Godot e perché lo attendono. E quando la scena si chiude, Godot non è ancora arrivato. Montante – si legge ancora nelle motivazioni della condanna – è il demiurgo non già del linguaggio dell’antimafia, ma dell’antimafia del linguaggio, che non oltrepassa la soglia delle parole, dei convegni, della vulgata mediatica, dei protocolli e delle iniziative dallo scarso risultato pratico».
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