Mimmo Cuticchio, l’oprante allo scoperto

Tra tradizione e innovazione si muove l’arte del puparo Mimmo Cuticchio, in scena al Centro Zo fino a domenica 28 febbraio con lo spettacolo ‘Dal Catai a Parigi Angelica alla corte di re Carlo’, presentato all’interno della rassegna Test – Gesti contemporanei del Teatro Stabile di Catania.
Attraverso marionette e lotte tra paladini il grande maestro del teatro dei pupi continua la tradizione della sua famiglia e dell’arte antica dei pupari, ma lo fa a modo suo, uscendo sulla scena e mostrandosi agli spettatori.
 
Ai microfoni di Radio Zammù, in un’intervista realizzata da Assya D’Ascoli ed Elio Sofia, l’artista ha parlato del suo mestiere, della storia dell’opera dei pupi e dei suoi progetti.
 
Lei è il più grande “oprante”, si dice così no?
«Sì, perché chi operava dando tutte le voci ai personaggi nel teatro dei pupi veniva chiamato oprante. Oggi è chiamato puparo, anche se in realtà il puparo è colui che costruisce i pupi».
 
La tradizione dell’opera dei pupi è non solo parte del patrimonio locale e siciliano, ma anche di quello del teatro nazionale. Molti però non la pensano così. Perché?
«Dobbiamo partire innanzitutto dal fatto che il teatro dei pupi, che oggi viene scambiato per un teatro del folklore per turisti e per bambini, in effetti è la forma teatrale più antica che abbiamo in Sicilia. Basti pensare che in tutto il mondo ci sono tradizioni di marionette, fantocci, ombre e altre forme di animazione, che non sono nate per i bambini, ma che hanno una storia millenaria. La gente non lo sa, legge il ‘Pinocchio’ di Collodi, che è chiamato burattino, e fa confusione. Infatti Pinocchio non è un burattino, ma una marionetta. Il burattino nasce da un semplice setaccio che si chiamava buratto, una tela molto spessa dove si crivellava la farina: questa pezza veniva poi buttata e i bambini la utilizzavano facendole un buco e mettendoci dentro le dita. Invece, la marionetta è addirittura legata al Cristianesimo: infatti marionetta è il diminutivo di Maria o Mariona, le vergini che venivano portate nelle processioni durante il II e III secolo d. C., che in un  primo momento erano in carne ed ossa e che, in seguito, vennero sostituite per sottrarle ai rapimenti dei pirati con, appunto, delle grandi marione che poi verranno costruite più piccole per i ragazzi e chiamate marionette».
 
È riduttivo quindi parlare del teatro dei pupi come un teatro popolare?
«No, io non mi offendo se si dice che è teatro popolare, perché il problema non è questo. Ci sono, e sono importanti, anche i saperi del popolo. Quando nell’Ottocento fu usata la parola folklore dai tedeschi, con essa non si identificava  il folklorismo, i colori, le piume, i pennacchi, ma i saperi, le conoscenze e le tradizioni del popolo. Siamo noi che scambiamo il folklore con il folklorismo. Per concludere con l’excursus su burattini e marionette, nel simposio di Senofonte uno dei partecipanti di Siracusa narra che riesce a vivere grazie agli spettacoli e alle rappresentazioni che fa con i suoi neurospasta, le marionette del tempo. Quindi la figura dell’oprante è molto antica, solo che, per esempio, al tempo dei greci o della Sicilia greca questo mestiere era legato ai riti: quello che oggi noi chiamiamo oprante o puparo era una sorta di sacerdote che si metteva al servizio della storia da raccontare guidato dagli dei, che a loro volta raccontavano ciò che il fato aveva deciso. C’erano quindi quattro piani narrativi: quello del fato, quello degli dei, quello dell’oprante che era il sacerdote e infine il piano delle marionette che rappresentavano gli uomini. Questo sistema poi sarà utilizzato dai sacerdoti cristiani. Infatti, i preti predicavano facendo muovere gli angeli o gli occhi e le braccia delle statue. Questo è il teatro di figure e i pupi rientrano appieno in questo tipo di teatro rituale».
 
Due anni fa lei ha tenuto una lezione sulla tradizione dei pupi all’Università di Catania e in quell’occasione ha ricordato che nell’opera dei pupi c’è una matrice quasi rivoluzionaria, perché attraverso gli spettacoli si davano, come in un gazzettino, notizie che venivano dal continente, notizie di moti, battaglie …
«Certo, gli opranti girovaghi venivano in contatto con i cantastorie e con sempre nuove vicende: raccontavano ora un’impresa ora un’altra, a volte a favore dei cristiani, altre a favore dei musulmani, spesso anche con molta ironia. Per esempio, in Francia, nella regione delle Ardenne c’è ancora una tradizione molto viva che narra la storia dei ‘Quatre fils d’Amon’, i quattro figli di Amone, in modo talmente ironico e gioioso che sembra scritta da qualcuno che con grande ironia ha voglia di dire di no alla guerra. Non ha nulla a che vedere con il realismo della ‘Chanson de Roland’ che, invece, veniva raccontata per invogliare i giovani ad andare a fare le crociate».
 
Durante i suoi spettacoli lei si mostra sulla scena insieme ai pupi. Come le è venuta questa idea?
«Io da almeno vent’anni sono uscito dal piccolo boccascena e faccio gli spettacoli a scena aperta, perché quando mio padre lavorava dentro il teatrino vedevo sempre la sua ombra proiettata nel muro ed era come se davanti ai miei occhi si svolgesse un’altra rappresentazione: il pubblico vedeva quella dei pupi, io quella di mio padre. Poi, nell’89 mi sono deciso a uscire dal boccascena e quello che vedevo da ragazzo da dietro il teatrino ora risultava bellissimo anche per chi era in sala. L’ho fatto la prima volta a Berlino Est, prima della caduta del muro nel ’77. Dopo ho realizzato una serie di sperimentazioni, ho maturato quest’idea del teatro nel teatro e dall’89 lavoro così, facendo vedere alla gente quello che c’è dietro la tela. Dietro il piccolo boccascena, dove però si raccontano grandi imprese, si nasconde una grande teatralità. Questa teatralità io la metto a nudo, uscendo sulla scena con i miei collaboratori, il pubblico ci vede agire e svelando questo mistero ne creo uno ancora più grande».
 
Com’è nata l’opera ‘Dal Catai a Parigi Angelica alla corte di re Carlo’?
«Sono stato invitato ad andare a Venezia per partecipare a un progetto sulla Cina e ho pensato che Angelica arrivava dal Catai e che il Catai si trova in Cina, così mi è venuta l’idea di fare il primo passo dell’‘Orlando Innamorato’, ovviamente alla mia maniera. Ho lavorato allo spettacolo costruendo anche dei pupi ispirati ai guerrieri cinesi di terracotta trovati di recente. Inoltre, questa volta le musiche non sono registrate né fatte col pianino a cilindro, ma è mio figlio Giacomo che con il pianoforte dentro la scena le suona dal vivo».
 
Con Giacomo a che punto si è arrivati della generazione che porta avanti la tradizione della famiglia Cuticchio?
«Lo posso dire, ma voglio premettere che l’arte non è tramandabile come il blasonato. Non è una questione di sangue blu. Mio padre faceva questo lavoro e mio figlio lo fa. Mio padre, però, non imparò da mio nonno, anche se anche lui fu un teatrinaro. Imparò da un’altra famiglia, i Greco, pupari da tre generazioni. Se dovessi contare, non conterei la famiglia ma la scuola, e cioè quella dei Greco che è nata nel primo quarto di secolo dell’Ottocento».
 
Si può dire che le storie che lei narra attraverso i pupi non sono limitate a un determinato periodo storico, ma attraversano i secoli e arrivano alla quotidianità grazie alla varietà delle tematiche?
«Noi partiamo dalla tradizione dell’opera dei pupi, da tutto ciò che la letteratura ci ha tramandato, come i testi classici, dai libri che raccolgono i racconti orali di anonimi cantastorie di vicende epico-cavalleresche. Ci avvaliamo della lettura di tutti questi testi antichi e in più della nostra tradizione orale. Poi, io amo anche leggere e scrivere e quindi mi rifaccio i canovacci a modo mio».
 
Lei è un artista a tutto tondo, infatti.
«Se ti dai i titoli e dici che sei drammaturgo, regista, attore, sembra che tu sia più importante, ma il punto è che la gente deve sapere che la figura dell’oprante è molto complessa. Penso, per esempio, a mio padre – non a me che ho letto, studiato e giro il mondo – che aveva la quinta elementare e conosceva cinquecento episodi a memoria senza leggere un libro; anche lui può essere considerato un drammaturgo. C’è una scrittura in parole e una scrittura scenica, quindi il puparo con poca scuola o semianalfabeta non è un poveraccio ignorante. L’oprante ha l’occhio del regista, quello del drammaturgo, dello scenografo e dell’attore: è un mestiere completo».
 
Nel 1977 ha fondato l’Associazione figli d’Arte Cuticchio, che si prefigge di salvaguardare l’arte dell’opera dei pupi, anche attraverso una scuola aperta ai giovani. Come sta andando?
«Ho aperto la scuola semplicemente perché volevo aprire i battenti del mio teatro a tutti i giovani che vogliono capire come funziona il mondo dei pupi. La mia, infatti, non voleva essere una scuola istituzionale. Va molto bene. Ci sono giovani che vengono da tutte le parti del mondo: l’ultima ragazza che ho seguito veniva dal Giappone. La tradizione continua, quindi, non solo con mio figlio e i miei nipoti».
 
Tra i progetti recenti c’è la realizzazione di una camera d’arte presso l’albergo Atelier del mare. La stanza non a caso si chiama ‘Opra’ e nasce dalla collaborazione con il suo amico Antonio Presti, promotore della Fondazione Fiumara d’arte. Quando verrà inaugurata?
«L’inaugurazione sarà il 20 e il 21 marzo. Il progetto della stanza, però, non nasce dall’amicizia tra me e Antonio, ma da un incontro con un mecenate che è anche un artista, quale è Presti, che ha grande interesse per tutto ciò che è nuovo e contemporaneo, ma anche per quello che è autenticamente tradizionale. Lui era un mio spettatore e fan. In seguito, siamo diventati amici, perché i viaggiatori nell’arte prima o poi si incontrano, e quasi dieci anni fa mi ha chiesto di realizzare una stanza d’arte. Adesso mi sono deciso e mi è toccata una camera piccola. Magari lui si aspettava che mi lamentassi per questo e, invece, la stanza faceva proprio al caso mio, perché dentro non ho voluto creare il teatro, ma il retro del teatro. Infatti, il boccascena sarà la finestra della camera: il teatro è fuori. Dentro sto raccontando un po’ la mia infanzia. Quando andavo in giro per la Sicilia con la mia famiglia, affittavamo un “malazzene”, un locale dove si allestiva il teatrino, nel retro si metteva il letto dei miei genitori e io e le mie sorelle dormivamo sul palcoscenico. Ho cercato di trasferire nella stanza tutte le suggestioni che le ombre e i pupi appesi mi suscitavano da bambino. Chi entrerà dovrà sapere che sta entrando nel cuore di un corpo che è quello dell’arte e anche quello della vita, perché nel retropalco nascevano i pupi, ma siamo nati anche io e i miei sei fratelli».

 

Agata Pasqualino

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