Tra le carte in mano alla difesa dell’uomo detenuto a Palermo con l’accusa di essere Mered, uno dei capi della tratta di esseri umani che dall’Africa sbarcano sulle coste europee, c’è anche la testimonianza di un eritreo rinchiuso nel carcere di Rebibbia. Nel suo racconto i dettagli inquietanti del viaggio che tanti disperati affrontano attraverso il deserto fino alla Libia
Migranti, il regno di terrore del trafficante Medhanie «Venduti, torturati e trattati come si fa con i maiali»
«Ho visto cose atroci, indescrivibili». Inizia così il racconto di un migrante di origine eritrea, attualmente detenuto nel carcere di Rebibbia a Roma e la cui testimonianza potrebbe risultare fondamentale nel processo attualmente in corso a Palermo contro il presunto boss della tratta di esseri umani, Medhanie Yedhego Mered. Nel suo racconto emerge la parte meno nota dei viaggi della speranza: i tanti chilometri che migliaia di disperati affrontano prima di arrivare sulle coste libiche e imbarcarsi alla volta dell’Europa. È qui che i trafficanti come Medhanie compiono le violenze più atroci, i rapimenti, le torture e i ricatti alle famiglie dei migranti in fuga dai propri Paesi. «Ci hanno caricato su un camion container, trasportava 200 persone per volta, un viaggio che se tutto va bene dura in media circa 18 ore», racconta agli inquirenti il detenuto eritreo, fuggito dalla sua città nel 2013. Era l’autista di un generale al servizio di un dittatore, contro il quale decide di disertare nascondendosi per mesi in un campo profughi etiope. Il viaggio per la Libia, snodo focale dalle cui coste partono i barconi carichi di migranti, si interrompe quasi sul nascere. «Siamo stati fermati da una banda di miliziani, che dal camion hanno preso me e altri 30 migranti – si legge nella deposizione – Sotto la minaccia delle armi ci hanno rapito e sequestrato. Siamo stati rinchiusi in una specie di carcere a Grumbli».
«Lì abbiamo subìto altre atroci torture, con delle lame ci facevano tagli sul corpo e ci frustavano – continua il racconto – Per essere liberati volevano un riscatto di 1.200 dollari a migrante». Non sono tutti, però, che hanno alle spalle una famiglia in grado di sostenere una simile spesa. Per i più sfortunati, quindi, la prigionia continua all’interno di una stanza le cui pareti sono tappezzate di fotografie e numeri di telefono: ogni immagine immortala un trafficante di essere umani, con cui i prigionieri sono costretti a mettersi in contatto. Uno dopo l’altro i boss vengono chiamati fino a quando non se ne trovi uno disposto a fare da garante. Uno insomma «disposto a pagare per te, di fatto a comprarti – dice il detenuto – perché dopo diventavi merce del trafficante». A comprare il migrante oggi rinchiuso a Rebibbia è Medhanie, ma a portare i soldi per liberarlo è un suo braccio destro, Jamal Musa. È una libertà che però dura un attimo, giusto il tempo di passare da una cella a un’altra, da una schiavitù fisica alla quale ne subentra una anche psicologica. «Io sono stato fortunato che Jamal e Medhanie hanno comprato la mia vita, di tanta gente non si è più saputo nulla, a Grumbli ti torturano fino alla morte o ti rivendono – continua il verbale d’interrogatorio – Lascio immaginare a voi cosa fanno alle donne».
Una volta divenuti proprietà esclusiva del boss, i migranti vengono costretti dentro la mezra di Tripoli, una sorta di magazzino che i trafficanti riempiono sino all’inverosimile, «arrivavamo a essere anche mille a volte», racconta il detenuto. Dalla mezrha, che alcuni chiamano prima casa, nessuno può uscire e la prigionia è scandita da una continua sorveglianza armata. Almeno fino al momento in cui Medhanie non decide di reclutare qualcuno, che viene obbligato a collaborare con l’organizzazione criminale, per potersi pagare il viaggio per mare: «C’era chi si occupava della cucina, chi delle pulizie, chi offriva assistenza medica e chi veniva messo a fare la guardia – racconta il detenuto di Roma – Rifiutarsi di collaborare significava scegliere di essere uccisi». E per sopravvivere, quindi, chiunque era disposto a obbedire ai boss. Finalmente arriva l’estate e con lei anche la possibilità, per il migrante oggi in Italia, di lasciare la mezrha ed essere imbarcato. L’iter è sempre lo stesso: si viaggia per circa 45 minuti dentro a camion colmi di gente, per essere poi scaricati su una spiaggia. Qui, però, l’agonia riprende immediatamente: «Siamo stati chiusi dentro un capannone, eravamo circa mille, ogni tanto venivano dei libici che aprivano e gettavano a terra un po’ di pane e acqua, come si fa con i maiali». I più fortunati dentro a quel capannone restano solo per una settimana, nell’arco della quale si beve appena un paio di volte. «Tanta gente moriva lì dentro, asfissiati, per la puzza o per le malattie – ricorda il migrante sopravvissuto – Poi ci facevano uscire 15/20 alla volta, imbarcandoci su una piccola barca che ne raggiungeva una più grande distante dalla costa, dove ci trasbordavano fino a riempirla». Da lì aveva finalmente inizio un altro, ennesimo viaggio, ancora fatto di violenze, torture e umiliazioni.