L'inchiesta Doppia sponda, che ha portato a 19 provvedimenti di custodia cautelare, ha fatto luce sui rapporti tra due gruppi criminali, che beneficiavano nella propria affermazione della vicinanza a esponenti di famiglie storiche - come i Mangialupi - e soggetti legati alla mafia catanese. Guarda le foto e il video
Messina, droga arrivava da Catania e Gioia Tauro «Tra ordini dal carcere e rapporti con clan etnei»
Per loro erano rose rosse o prezzemolo, ma fruttavano migliaia di euro. Si tratta della droga trafficata a Messina dai due gruppi criminali bloccati oggi dai carabinieri. Diciannove le ordinanze di custodia cautelare: 13 in carcere, quattro agli arresti domiciliari, mentre per due è stato prescritto l’obbligo di presentazione. I reati contestati sono di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e detenzione illegale di armi da fuoco.
L’inchiesta – denominata Doppia sponda – è iniziata nel 2013. Gli stupefacenti arrivavano da Catania e Gioia Tauro. A guidare i gruppi nel corso del tempo due persone: Maurizio Calabrò e Marco D’Angelo. «Calabrò riusciva impartire le direttive anche dal carcere – spiega il comandante provinciale Iacopo Mannucci Benincasa -. Era facilitato dai rapporti che aveva con esponenti di vertice di alcuni sodalizi mafiosi catanesi».
A far scattare l’indagine l’arresto di uno spacciatore messinese l’8 marzo 2013. Stava trasportando oltre un chilo di marijuana suddivisa in 12 involucri. Un quantitativo da cui si sarebbero potute ricavare oltre 5500 dosi. Da quel fermo gli investigatori sono riusciti a risalire al gruppo che ruotava attorno a Calabrò, soprannominato Militto, e successivamente Giuseppe Valenti, divenuto leader del gruppo quando il primo è stato arrestato.
Come detto era proprio Calabrò che «indicava ruoli e attività, curava il reperimento della droga, attraverso contatti personali con elementi calabresi rimasti ignoti e il catanese Sebastiano Sardo». Un legame di amicizia, quello con Sardo, talmente stretto che Calabrò si era tatuato su un braccio il suo nome di battesimo. La detenzione in carcere di Calabrò aveva tuttavia creato fermento negli ambienti criminali. Ed è in questa fase che i carabinieri notano «una nuova struttura delinquenziale capeggiata da Marco D’Angelo, desideroso di recidere la collaborazione con il Valenti». Il desiderio di indipendenza, per gli inquirenti, è riconducibile alle parentele di D’Angelo «alla luce del fatto D’Angelo era il futuro genero di Giuseppe Trischitta, uno degli storici reggenti del clan di Mangialupi».
A differenza di Calabrò, D’Angelo affida la commercializzazione dello stupefacente a un ristretto numero di persone. C’erano regole precise da seguire. Gli incontri con i pusher dovevano avvenire sempre di notte e a casa sua, adottando e facendo adottare ogni cautela per eludere i possibili controlli delle forze dell’ordine. Il venerdì era il giorno scelto per la riscossione degli introiti. Dal libro mastro, sequestrato dagli investigatori, sono emerse transazioni di importi molto rilevanti, come quando D’Angelo ha ceduto stupefacente a due acquirenti per 23 mila 800 euro. L’organizzazione aveva inoltre la disponibilità di armi. Durante le indagini, il 26 novembre 2013, i carabinieri hanno sequestrato un fucile calibro 12, occultato in un bar di Via La Farina.
Tra gli arrestati, in carcere sono finiti Maurizio Calabrò, Marco D’Angelo, Salvatore Di Mento, Filippo Iannelli, Gianluca Miceli, Domenico Giovanni Neroni, Antonino Pandolfino, Paolo Pantò, Massimo Laddea Raffa, Sebastiano Sardo e Giuseppe Valenti. Hanno ottenuto i domiciliari Antonio Barbuscia, Santino Calabrò, Francesco Crupi e Rocco Valenti. Infine obbligo di presentazione per Rocco Lanfranchi e Salvatore Micali.