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Medaglia d’onore a Francesco Dottorello Calzolaio calatino deportato a Mauthausen
«Mio nonno non era un eroe, ma un semplice soldato di fanteria che è stato ucciso in un lager nazista». Antonio Faranda Gnao esordisce con parole umili per raccontare la storia Francesco Dottorello, il padre di sua madre, calzolaio di Caltagirone richiamato al fronte durante la seconda guerra mondiale e deportato a Mauthausen nel 1944, dove morì un anno dopo. Una vicenda «comune a quella di migliaia di persone», afferma il nipote, su cui «ci sono voluti 40 anni prima di sapere cosa è successo davvero». Una verità dimenticata, ma su cui si è riuscito a fare luce grazie alla ricerche del nipote, che hanno permesso alla famiglia di Dottorello di ottenere, a distanza di più di mezzo secolo, il giusto riconoscimento da parte dello Stato italiano. Oggi, 2 giugno, in occasione della festa della Repubblica, in Prefettura a Catania si terrà la cerimonia di consegna della medaglia d’onore alla figlia Giuseppa, in memoria del padre, vittima del nazismo.
Francesco Dottorello era nato a Caltagirone nel 1908 e, come tanti, troppi, altri militari italiani dell’epoca, dalla guerra non tornò più. «Mio nonno fu catturato a Udine il 9 settembre 1943, all’idomani dell’armistizio – racconta il nipote – prigionia da cui probabilmente riuscì a scappare, ma fu ripreso a Roma dalla polizia fascista la vigilia di Natale del 1943 e rinchiuso a Regina Coeli perché considerato antifascista». Dal carcere al lager il passo è stato breve. «Il 4 gennaio 1944 – continua Faranda – fu caricato su un treno insieme ad altre 330 persone e deportato Mauthausen, in Austria. Campo di sterminio non di semplice prigionia», afferma. E dove fu ucciso un anno dopo.
Una storia, quella di Dottorello, emersa solo dopo anni di ricerche. Prima di lui si sapeva che fosse caduto in guerra, ma non che fu una vittima del nazismo. «Nel 1947 la Croce rossa comunicò a mia nonna con un telegramma che mio nonno era morto nel ’45 in un campo di prigionia in Germania», racconta il nipote. Quel foglio, con il passare del tempo, finì in un cassetto e la storia di Dottorello fu dimenticata. «Di mio nonno non si seppe più nulla», spiega, finché, nel 1987, insieme ai ricordi e alle vecchie lettere, il telegramma non capitò tra le mani di Faranda, insieme alla voglia di fare luce sulla scomparsa di suo nonno. «Quel vecchio pezzo di carta ingiallito dal tempo fu la molla che fece scattare in me il bisogno di informarmi, di scavare per arrivare a quello che è si è saputo fino ad adesso». All’epoca aveva 18 anni.
Cominciate le ricerche, il nipote venne a sapere che Dottorello era stato trasferito in treno da Roma nel campo di sterminio austriaco. «Ero a Trieste e mi sono messo in macchina per andare a Mauthausen, che si trova a circa 500 chilometri di distanza. Lì ho avuto le prime notizie, scoprendo che mio nonno era stato immatricolato. Il suo numero era 42073». Dopo quella prima visita a Mauthausen, le ricerche di Faranda andarono avanti per anni. «Sono tornato altre volte in Austria, la seconda andai con la mia famiglia e portai anche mia nonna. Abbiamo deposto una lapide davanti all’ingresso del campo, che c’è ancora oggi».
Ad aiutare Faranda a ricostruire la storia di Dottorello sono state anche alcune persone che, come suo nonno, hanno conosciuto l’orrore dei campi di concentramento nazisti. «Attraverso l’Aned, Associazione nazionale ex deportati, ho preso contatti con alcuni dei sopravvissuti di Mauthausen – racconta – l’ultimo che è stato trasportato in treno insieme a mio nonno il 4 gennaio ’44 è venuto a mancare un mese e mezzo fa». Ma la maggior parte delle parte delle informazioni – precisa – sono arrivate grazie al supporto del presidente dell’Anpi Sicilia Nunziato Di Francesco, partigiano catanese sopravvissuto alla deportazione nel campo di Mauthausen, scomparso nel 2011, e da Giovanna D’Amico, storica dell’Università di Torino. «Di Francesco mi diceva sempre: “Tuo nonno era un militare, il fatto che sia finito a Mauthausen vuol dire che non era un semplice soldato ma che dopo l’armistizio del ’43 si sarà affidato ai partigiani” – racconta il nipote di Dottorello – perché ai militari era riservato un trattamento migliore: venivano sì rinchiusi in campi di prigionia, ma avevano un margine di speranza di sopravvivere».
Invece Francesco Dottorello non tornò più nella sua Caltagirone. Quando fu ucciso dai nazisti aveva 36 anni. «Mia madre rimase orfana di padre a otto anni, l’ultima volta in cui lo vide ne aveva sei», spiega Faranda «Era quello che da noi si dice un santu cristiano – racconta, confessando di affidarsi alla memoria dei pochi ricordi rimasti dai racconti di sua nonna – uno che non sapeva stare con le mani in mano. Era un padre di famiglia, una persona molto umile che faceva il calzolaio ma lavorava anche in campagna pur di portare il pane a casa». Oltre alla madre di Faranda, Dottorello aveva altri due figli, «morti in tenera età», racconta il nipote. Uno dei quali scomparve proprio nel ’43. «Poco prima dell’armistizio lo madarono a casa in licenza di lutto – ricorda il nipote – Tutti gli dicevano di restare a Caltagirone, gli americani erano già sbarcati in Sicilia e non gli sarebbe successo nulla. E invece dopo cinque giorni ripartì per il fronte. Questo era il rammarico di mia nonna, la quale ripeteva sempre che se fosse rimasto, non sarebbe stato portato in un campo di sterminio».
La medaglia d’onore non è il primo riconoscimento alla memoria dei Francesco Dottorello. La sua città, Caltagirone, gli ha dedicato una via cittadina e, nel 2008, una «targa specifica all’interno del monumento dei caduti, dove era già ricordato insieme ad altri quattro concittadini come disperso in guerra, mentre adesso è annoverato tra i martiri antifascisti». Memoria che sarà rinnovata il 2 giugno a Catania, di cui Faranda si è occupato il prima persona, come ultimo passo per comporre la vicenda della scomparsa di suo nonno. «Tramite l’Aned sono venuto a sapere che avevamo pieno diritto a ricevere l’onoreficenza, così ho mandato la richiesta al presidente della Repubblica, da cui ho ricevuto risposta a distanza di cinque mesi dalla presentazione dell’istanza». Anche se ammette con rammarico che non potrà essere presente. Da tre anni, infatti, Faranda vive e Nonantola, in provincia di Modena, dove si trova «a casa in malattia». «Mi aspettavo la cerimonia per il 27 gennaio, il giorno della memoria, invece hanno anticipato tutto al 2 giugno», precisa. Ma non nasconde la gioia provata alla notizia della cerimonia in onore di suo nonno. «E’ indicibile quello che stiamo provando – ammette – è qualcosa di speciale». «Con questa medaglia – conclude – mia madre non riavrà indietro suo padre, ma almeno la sua memoria riceverà un riconoscimento. Almeno questo».
[Foto di Antonio Faranda Gnao]