Attraverso le frasi, spesso esplicite, contenute nelle carte dell'inchiesta è possibile identificare le caratteristiche del gruppo ritenuto appartenente ai Pillera-Puntina. «C'è una dimensione quasi domestica», spiega il professore Salvatore Di Piazza
Mafia vintage nelle intercettazioni del blitz Consolazione Riflessioni sulla normalizzazione del lavoro da malavitoso
Il linguaggio della mafia come strumento di identificazione e analisi della mafia stessa. Frasi e parole, messe nero su bianco nelle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali che, nella cronaca giornalistica, spesso lasciano il passo alla descrizione di affari e personaggi. Nelle carte dell’inchiesta Consolazione, dal nome del blitz eseguito nei giorni scorsi dalla polizia contro il clan Pillera-Puntina, è possibile tracciare uno spaccato di una criminalità «normalizzata», lontana da grandi appalti e patti occulti con il mondo della politica. Gli interpreti dell’indagine prediligono la vita su strada grazie a una forte radicazione all’interno del quartiere Borgo, tra piazza Cavour e via Consolazione, arteria quest’ultima che ha dato lo spunto agli inquirenti per scegliere il nome dell’indagine. «Le intercettazioni di questo blitz riportano i mafiosi sulla terra, tolgono loro mistero e ci rimandano a una dimensione quasi domestica», spiega il docente di Filosofia del linguaggio all’università di Palermo Salvatore Di Piazza.
Anche il giudice per le indagini preliminari Pietro Currò nell’ordinanza di custodia cautelare si sofferma sul linguaggio, definendolo «talora anche assai esplicito e che, per lo più, non abbisogna di alcuno sforzo ermeneutico o di commento di particolare impegno». Secondo gli inquirenti il gruppo attivo al Borgo, pur avendo contatti e piccoli affari in comune con altri gruppi criminali cittadini, compresa un’articolazione della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola, avrebbe prestato una grande attenzione al controllo del proprio quartiere. «Questi qua come si permettono di fare qualche cosa al Borgo? Queste cose loro non le possono fare», diceva il presunto reggente del gruppo Fabrizio Pappalardo mentre era intercettato. «Questi qua sono cani sciolti, noi ci dobbiamo mettere il ferro», replicava il suo interlocutore facendo riferimento alla possibilità di ricorrere alle armi.
«Capita spesso che ci sia una visione quasi eroica dei mafiosi, di cui proprio il linguaggio è una delle espressioni più auree. Nelle intercettazioni di questa indagine emerge invece una dimensione diversa basata su un controllo capillare del territorio, quasi ad-personam», continua Di Piazza durante la trasmissione radiofonica Direttora d’Aria – in onda dal lunedì al venerdì sui canali del gruppo Rmb. «Io l’ho capito che volevi dargli un altro schiaffo però ti sei fermato perché hai visto il bambino… e non è corretto, perché tu sei padre di famiglia pure», si legge in un’altra intercettazione riportata nelle oltre 300 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare.
Un lungo elenco di dialoghi in cui la vita del criminale è considerata a tutti gli effetti come un lavoro. Emblematico l’episodio in cui alcuni presunti appartenenti del gruppo si recano, a quanto pare con l’obiettivo di portare a termine un’estorsione, in un cantiere edile allestito lungo via Monserrato, non distante da piazza Cavour. Quando gli indagati si trovano davanti gli addetti scatta la precisazione: «Tu sei un operaio e stai facendo il tuo lavoro e così come te anche noi facciamo il nostro lavoro, adesso spegni l’escavatore e vatti a prendere un caffè al chiosco perché qui non si lavora più fino a quando non mi venite a cercare per risolvere la situazione». «Questa frase – spiega Di Piazza (autore del libro Mafia, linguaggio, identità) – è a tutti gli effetti un’autolegittimazione del proprio operato».
E nel gioco a guardie e ladri c’è anche un sentimento di compassione da parte degli ultimi nei confronti di chi dovrà giudicarli. Passaggio, quest’ultimo, che viene messo in conto senza nemmeno troppi patemi. «Umani come noi sono, dipende come si alzano la mattina», commentavano. Altro particolare di questa indagine è il mancato utilizzo di qualsiasi tipo di linguaggio criptico per eludere le microspie. «Si sviluppa una sindrome da Grande fratello – conclude lo studioso – Nei primi due giorni, quando entri nella casa, stai attendo a tutto perché hai le telecamere addosso. Poi però ti abitui e non ci pensi più. Loro sapevano di essere intercettati ma emerge comunque una comunicazione esplicita».