Estorsioni pagate in assoluto silenzio dai ristoratori agli esattori di Cosa nostra. Nella borgata marinara di Sferracavallo, a due passi da Palermo, le vittime avrebbero sborsato i soldi attraverso un «meccanismo perfettamente rodato che si fondava sull’implicita e reciproca consapevolezza di tutte le persone coinvolte». Il pizzo veniva messo tra le uscite di gestione e i boss non dovevano alzare la voce più di tanto, «pena l’esposizione delle attività commerciali al concreto rischio di atti predatori e danneggiamenti». Uno Stato parallelo che viene raccontato nelle pagine dell’ordinanza che, nei giorni scorsi, ha riacceso i riflettori sull’anziano boss Michele Micalizzi. Denunce ridotte al lumicino e diverse vittime che ancora devono essere identificate dalle forze dell’ordine. «Noi te li stiamo dando perché vediamo che sei un bravo ragazzo – diceva una donna a Rosario Gennaro – però, noi d’inverno non abbiamo pagato mai. Pagavamo d’estate fino a ottobre e poi da aprile». Il presunto esattore avrebbe messo le mani avanti: «Allora d’inverno non lo volete guardato qua? Questo è il problema». Protezione e controllo in cambio del pizzo riscosso con cadenza mensile.
In un’occasione – risalente a marzo dello scorso anno – uno dei ristoratori vittime di estorsione avrebbe dovuto fare i conti con un furto. In questa occasione, Gennaro si sarebbe attivato per recuperare la merce – tra cui una idropulitrice – riuscendo a individuare anche l’autore. Quest’ultimo, per essere punito, sarebbe stato picchiato selvaggiamente in piazza. Una «manifestazione di efficienza della cosca mafiosa a tutti gli operatori economici destinatari dei prelievi forzosi», scrive il giudice per le indagini preliminari. La vittima del pestaggio avrebbe chiesto perdono in ginocchio e i dettagli del pestaggio sarebbero stati commentati, senza troppi giri di parole, da Gennaro con il suo superiore: identificato dagli inquirenti nel 46enne Amedeo Romeo. Quest’ultimo, dopo sei anni trascorsi in carcere – dal 2011 al 2017 – sarebbe tornato in campo a Sferracavallo, forte di una lunga militanza in Cosa nostra e con l’aggiunta di essere vicino al capomafia Giulio Caporrimo. «Gli ho detto: “Devi ringraziare a Dio che non ti ha scannato qua dentro», diceva il secondo al primo.
Stando alla ricostruzione degli inquirenti, ci sarebbe stato una sorta di tariffario per garantire la protezione alle attività commerciali, ossia una somma di circa 150 euro al mese. Alla cifra si arriva intercettando un dialogo che ha come protagonista il solito Gennaro e un’amica. I due discutevano dei danni subiti da alcune attività allestite con distributori automatici h24. «Si sono aperti il self-service – raccontava Gennaro – e i ragazzi dello Zen ci hanno fatto… a tipo sfregi. Dice “Se gentilmente che sei qua puoi passare di là e dargli un’occhiata”. Gli ho detto: “Si, certo: 150 euro“. Per come pagano gli altri, paghi anche tu».
Gennaro viene identificato dagli inquirenti come il guardiano della borgata di Sferracavallo. Ruolo legittimato da una sorta di investitura dalla cosca di Tommaso Natale. L’uomo avrebbe preso il posto di Matteo Pandolfo, arrestato nel blitz dopo essere finito in esilio forzato a Cibiana di Cadore. In provincia di Belluno, Pandolfo si sarebbe reinventato come manovale dopo essere stato estromesso dalla riscossione del pizzo nella borgata palermitana. La sua colpa sarebbe stata quella di essere andato a «raccogliere» soldi – a quanto pare 600 euro destinati a un carcerato – senza essere stato autorizzato. Per questo motivo, «gli vogliono rompere le gambe. Un colpo di mazza e lo lascio a terra», diceva Gennaro in uno dei suoi sfoghi finiti intercettati. «Figurati che neppure a suo cognato gli interessa niente. La deve pagare. Tu lo vuoi nella sedia a rotelle? E io lo metto sulla sedia a rotelle».
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