Il ritorno di Micalizzi, sopravvissuto alla guerra di mafia e pronto a fare affari con i fondi dell’Unione europea

Uomo della vecchia Cosa nostra tra i perdenti della seconda guerra di mafia portata avanti da Totò Riina, genero del potente e sanguinario capomandamento Saro Riccobono ma anche importatore di eroina thailandese negli anni ’80. Michele Micalizzi, 73 anni, il suo conto con la giustizia lo aveva saldato. Dopo 20 anni trascorsi dietro le sbarre, era stato scarcerato il 12 agosto del 2015. Quel giorno si era «liberato di tutto» e, dopo un breve periodo trascorso in Toscana (a Firenze) era tornato nella sua Palermo per prendersi in mano il vertice della famiglia mafiosa di Partanna Mondello. La data da cerchiare in rosso a cui affiancare il ritorno in campo di Micalizzi corrisponde, secondo la ricostruzione degli inquirenti, alla mattina dell’8 dicembre del 2017. L’anziano padrino viene intercettato mentre discute, all’interno di una casa in via Mogadiscio, con Tommaso Inzerillo. Anche lui, nel frattempo, tornato nel capoluogo dopo l’esilio negli Stati Uniti sotto l’ala protettrice della famiglia Gambino di Brooklyn.

Vecchie storie che tornano e nuovi business da portare avanti, come una presunta truffa con i fondi dell’Unione Europea. «Io conosco una persona a posto, ed è buona – diceva Micalizzi a Inzerillo – ha buone possibilità per potere approfittare di questi finanziamenti a fondo perduto, per quanto riguarda l’agricoltura. Questo ha l’ufficio a Bruxelles, a Malta, vediamo di prendere quattro soldi». Affari ma non solo. Nella conversazione intercettata, Micalizzi avrebbe fatto riferimento anche alla possibilità di mettere a disposizione le armi della propria famiglia mafiosa. «Se hai bisogno di attrezzatura, cose, noi le abbiamo». «Qua noi dobbiamo stare in pace», rispondeva Inzerillo rimarcando il passato e la sconfitta di entrambi nella guerra di mafia. «Abbiamo avuto l’esperienza», aggiungeva. Inzerillo aveva bene in mente la guerra con i corleonesi e la morte più illustre della propria famiglia: quella del cugino Salvatore Totuccio, ucciso l’11 maggio 1981.

Nella carte dell’inchiesta Metus, che ieri ha fatto scattare 11 misure cautelari, Micalizzi viene descritto come un uomo particolarmente attento, sempre pronto ad adottare tutte le cautele possibili per evitare di incappare nella rete delle forze dell’ordine. Tuttavia in due occasioni, come riportato nell’ordinanza, sarebbe stato costretto a uscire allo scoperto, dimostrando «in maniera plateale il suo potere criminale», scrive il giudice per le indagini preliminari. Il primo evento corrisponde al furto dell’auto della moglie, Margherita Riccobono, nel quartiere Zen di Palermo. Era l’8 settembre del 2021 e in circa due ore Micalizzi, con la complicità del figlio Giuseppe e di Vincenzo Garofalo, riesce a recuperare il mezzo nonostante una formale denunciata presentata ai carabinieri. «L’ho macinato e Giuseppe ci si è buttato sulla pancia. L’ho ammazzato a bastonate», diceva Garofalo, sottolineando la propria devozione per la moglie del capomafia: «È mia zia, chi me la tocca lo faccio volare».

L’altro episodio in cui Micalizzi si espone è datato gennaio 2022. Dopo il tentato omicidio, fallito soltanto per la rottura della lama del coltello, di Emanuele Anello Cusimano per mano del fratello Carmelo. Volti noti nell’ambiente per essere i fratelli di Giuseppe Cusimano, correggente della famiglia mafiosa dello Zen-Pallavicino. L’ordinanza Metus è stata notificata anche a Carmelo Cusimano, che dovrà rispondere di tentato omicidio. Una vicenda scaturita, a quanto pare, da dissidi familiari. Per essere ricomposta si è poi reso necessario l’intervento delle figure più carismatiche del mandamento mafioso. Da Giulio Caporrimo a Giuseppe Micalizzi fino a Salvatore Genova che venne coinvolto anche se reggente del vicino mandamento di Resuttana.


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