Nel 2013, dopo la morte di Paolo, sarebbe dovuto toccare a Salvatore. Qualcosa però non convinceva affiliati e capimafia della famiglia catanese di Cosa nostra. Ecco i dettagli che emergono nelle carte dell'inchiesta Kallipolis. «Durante una riunione ci siamo accorti che era dentro un cassone», spiega Santo La Causa
Mafia, la morte del boss Brunetto e il trono al fratello Parla il pentito: «Era inaffidabile. Si nascose armato»
Di padre in figlio, da fratello a fratello. È questo il corso naturale che normalmente seguono le dinastie mafiose, legate dal vincolo di sangue della stessa famiglia. Una sequenza temporale nei ruoli di vertice che però non sempre viene seguita, come sarebbe avvenuto nel caso del clan Brunetto di Giarre. Dopo la morte dello storico boss Paolo Brunetto, avvenuta nel giugno 2013 per problemi di salute, la successione sarebbe dovuta toccare al fratello Salvatore, ma qualcosa non è andato come previsto. Un particolare che emerge nelle carte dell’inchiesa Kallipolis, che ha portato nelle scorse settimane 12 persone in manette lungo la fascia ionica.
«Era inaffidabile e per questo motivo non veniva investito direttamente degli affari». A spiegarlo ai magistrati della procura di Catania è il collaboratore di giustizia Santo La Causa. Un pezzo grosso di Cosa nostra ai piedi dell’Etna che si è pentito nel 2012, svelando dinamiche e retroscena di numerose alleanze, come quella storica tra la cosca di Giarre e i padrini catanesi.
Non sono più buono di testa
Il collaboratore di giustizia nei suoi verbali parla di alcune vicende del passato, come una discussione con il capo provinciale di Cosa nostra Vincenzo Aiello: «Mi raccontò di aver partecipato a una riunione nelle zone di Fiumefreddo di Sicilia, insieme a Saro Tripoto e al soggetto che noi avevamo scelto per dirigere quella frangia. Aiello si accorse che il fratello di Brunetto si era nascosto all’interno del cassone di un camion, forse armato, suscitando le sue ire, tant’è che lo apostrofò severamente». Il mancato erede viene a più ripreso definito «instabile» dai presunti affiliati del clan. Un problema che a quanto sarebbe derivato da alcuni suoi problemi di salute, che lo costringevano periodicamente a sottoporsi a trasferimenti e cure in una comunità vicino Marsala, in provincia di Trapani. In questo periodo, fatto di viaggi verso l’altro lato della Sicilia, avrebbe preso in mano la reggenza Carmelo Olivieri.
Le precarie condizioni di salute sarebbero state manifestate dallo stesso Brunetto. Come emergerebbe da alcune intercettazioni telefoniche. È il 18 ottobre del 2013 quando un uomo raccoglie la confidenza del mancato successore designato: «Non sono più buono di testa», spiega Salvatore Brunetto. Mesi dopo è Salvatore Patanè, anch’egli arrestato, a parlare dei problemi: «Quella mattina è spuntato Turi Brunetto a casa mia, con la testa non c’era. Lui non si ricorda. Non gli dire niente. Tranquillo». Nonostante questa situazione i magistrati accusano Brunetto di associazione mafiosa. Secondo il pentito Salvatore Vinciguerra si sarebbe occupato di «traffico di droga e armi». Eventualità che, secondo la giudice Francesca Cercone, non consentono comunque di «riconoscergli il ruolo verticistico di capo promotore».