Mafia, antimafia e processo trattativa nel libro di Lodato Di Matteo: «Attenti a quella magistratura che non è libera»

«Falcone…è bello ricordarlo nel suo aspetto di eroe civile, ma la sua storia da vivo è stata una storia di sconfitte, di isolamenti, di delegittimazioni, di bocciature continue». Parla così Nino Di Matteo a pochi giorni dalle commemorazioni legate alla strage di Capaci. L’occasione è quella della presentazione del libro del giornalista Saverio Lodato, Avanti mafia!, presentato ieri sera nell’atrio della biblioteca di Casa Professa. Una raccolta di articoli, quella di Lodato, che nasce direttamente dalla sua esperienza sul campo e che attraversa un arco di tempo recentissimo, quello che va dal 2012 al 2018. Un’occasione per offrire un punto di vista ulteriore e in certi casi controcorrente su argomenti sempre più spesso accantonati dal grande mainstream. Un modo per ribadire che ad oltre vent’anni dalle stragi che hanno insanguinato il Paese nei primi anni Novanta, c’è ancora molto da fare e che «antimafia» non è una parola morta.

«Ho avuto l’onere negli anni – torna a dire il magistrato – di occuparmi, direttamente o indirettamente, di molti delitti eccellenti, da quello di Chinnici a Borsellino, e Cassarà, Montana, Mattarella, Reina…Per me c’è stata sempre una costante: quegli uomini dello Stato costituivano ciascuno un’anomalia rispetto a una situazione in cui l’altra parte dello Stato sostanzialmente tollerava il fenomeno mafioso». Tra tutti, l’esempio più alto per lui è quello di Pio La Torre, espressione della vera politica antimafiosa, quella cioè «che non aspetta le sentenze della magistratura, che denuncia prima ancora che intervengano i giudici». Motivo che gli valse un forte isolamento, persino da una parte di quel Pci che all’epoca rappresentava l’apice della lotta politica alla mafia. Lo stesso isolamento patito dagli altri, Falcone in testa, che – forse anche per questo – non disdegnò in passato di dire come stavano le cose anche pubblicamente, attraverso apparizioni e interviste.

«Qualche volta i magistrati devono parlare pubblicamente – sostiene Di Matteo -. Sono stato un lettore appassionato di articoli, specie quelli dei Siciliani di Fava. E me li ricordo bene quelli che all’epoca parlavano di Falcone in un certo modo e che ora fingono di ricordarlo e di esserne stati amici. “Protagonista”, gli dicevano, “sceriffo”. Qualcuno ipotizzò addirittura che dietro il fallito attentato dell’Addaura ci fosse lui stesso. La memoria la dobbiamo conservare e poi, ve lo dico da magistrato ma ancora di più con il cuore da cittadino, state attenti alla magistratura». Un appello che per un attimo ammutolisce l’intera platea, che sgrana gli occhi in attesa che lui continui, che lui spieghi. «La battaglia per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non è un capriccio, un privilegio. È una lotta di libertà. Una politica seria, profonda, costituzionalmente orientata dovrebbe avere a cuore l’indipendenza della magistratura ancora di più. Sono battaglie forti, di democrazia. La lotta alla mafia, e non intendo semplicemente quella militarizzata, è cosa ben più complessa e non possiamo vincerla solo noi magistrati».

Per riuscirci, secondo il pm del processo trattativa, occorrono almeno due condizioni: la prima consiste in «un cambiamento serio della politica, che metta al primo posto sempre e comunque la lotta alla mafia»; la seconda è che si verifichi una spinta dal basso, «una rivoluzione culturale che parta dal popolo». Ne è convinto, di questo, lo stesso sindaco Orlando, che prima di lui ha ribadito lo stesso concetto: che Palermo oggi possa contare su una vera antimafia popolare. «Qualcosa è cambiato, ed è cambiato più nelle borgate che in via Libertà. Perché chi ha di meno ha più bisogno di libertà di chi ha di più. Palermo è la città che in Europa negli ultimi anni è cambiata di più. E proprio chi non ha “titoli di studio” riesce a cogliere meglio il dolore e la cifra delle nostre perdite – spiega -. Palermo oggi inizia ad avere finalmente sprazzi di leggerezza, dobbiamo rafforzarli, sono sprazzi di normalità e sono più presenti in chi ha di meno piuttosto che in chi in questa città ha di più».

«Risolvere il problema della mafia? Sostituiamo il Gattopardo col libro di Lodato 40 anni di storia della mafia». Quella di Pif, presente anche lui ieri, è chiaramente una provocazione, ma che arriva dritta al punto, a modo suo. «Basta con i soliti alibi culturali, col solito “siamo fatti così, è la nostra natura” – dice -. Mi sono un po’ rotto le palle di sentire il “giudice antimafia“, il “regista antimafia“, “l’attore antimafia“, e gli altri? Allarghiamo il recinto e stabiliamo che siamo tutti antimafia. Il leader saremo noi e porteremo avanti questa lotta. Perché voglio morire pensando che ho fatto quello che potevo». A chiudere il confronto è lo stesso Lodato, che si lancia in un accoratissimo discorso che si snoda proprio a partire dal suo nuovo libro, da quel suo tirare le somme, da quel conto che ci viene presentato dopo quasi sei anni di un processo che ha fatto la storia: «Con la mafia non si deve convivere, a questo sono servite queste vite così brevi, da Falcone a Borsellino, a farci capire questo – spiega -. È quello che abbiamo cercato di fare noi in questi 26 anni, rifiutandoci di credere che la mafia avesse fatto tutto da sola, che in Italia dietro delitti, stragi eccellenti, mattanze interminabili non ci fossero mandanti, che lo Stato fosse stato sempre dalla parte giusta, alla favoletta che esisteva da un lato la mafia e dall’altro uno Stato che le faceva la guerra».

E dopo 26 anni il tempo, in fondo, è stato benevolo secondo l’autore. Perché oggi possiamo vantare una sentenza che ha fatto la storia, è quella decisa il 20 aprile 2018 nell’aula bunker del Pagliarelli. Quella che porta la firma del giudice della seconda corte d’assise di Palermo, Alfredo Montalto, della giudice a latere Stefania Brambilla e di un pugno di giudici popolari. «Finalmente abbiamo una sentenza che dice chiaramente che sì, dietro la mafia c’era lo Stato. Qualcuno dice che è solo una sentenza di primo grado, che ci saranno altri gradi di giudizio, che tutto potrebbe anche essere ribaltato. È vero, ma intanto ce lo godiamo questo risultato, e non perché gioiamo per la condanna dei colpevoli, ma perché anche noi per 26 anni abbiamo vissuto con un tarlo, con un dubbio che ci rodeva, che poteva essere davvero possibile che avessimo visto lo Stato dove c’era la mafia e viceversa. No, non eravamo dei visionari e non lo sono stati quei quattro magistrati che per sei anni si sono spesso sentiti dire che quel processo non era altro che una “boiata pazzesca”. Di questa sentenza si è parlato per due giorni appena, forse è vero, ma sono bastati per non fare adoperare più a nessuno quell’espressione, se la sono dovuta rimangiare e questo dà la misura in parte di quanto fatto in questi 26 anni».

Silvia Buffa

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