Lombardo, le accuse del pentito «Bus per le urne in cambio di soldi o spesa»

«Non esiste che la malavita a Catania non abbia un ruolo in ogni nuova grande opera. A meno che, in futuro, non esisterà più. Ricordiamoci infatti che la mafia, negli appalti, ci va con i prestanome». Parola di pentito. Gaetano D’Aquino, classe 1971, ex esponente del clan catanese dei Cappello ha proseguito oggi la sua audizione nel corso del processo per voto di scambio al governatore regionale Raffaele Lombardo e al fratello Angelo, deputato nazionale Mpa. Una testimonianza, la sua, iniziata in aula quasi un mese fa tra problemi tecnici e risposte confuse. Accusa e difese lo hanno oggi ascoltato di nuovo: racconti più precisi e, soprattutto, versioni mai rese fino a ora né in aula né ai magistrati. «Poco tempo fa è morto il mio fratellino più piccolo, cinque anni, in un incidente stradale – racconta il collaborante – Io per 24 anni sono stato un mostro e mi faccio ancora schifo per questo. Ma non a tal punto da non avere la testa al funerale». Spiega così la sua confusione, insieme alle difficoltà dovute alla videoconferenza. Oggi D’Aquino è stato infatti tradotto di persona nell’aula bunker di Bicocca gemella di quella palermitana.

Quattro ore di audizione e decine di domande, sia da parte dei pubblici ministeri Carmelo Zuccaro e Michelangelo Patanè, sia da parte degli avvocati Pietro Granata e Guido Ziccone, legali rispettivamente di Angelo e Raffaele Lombardo. Presente in aula anche il presidente della Regione Sicilia che, tra una sbirciata all’iPhone – sempre tra le mani – e un appunto passato al suo legale, a mala pena riesce a trattenersi dall’intervenire.  I ricordi di D’Aquino si soffermano su tue tornate elettorali: 2006 e 2008. In entrambi i casi, racconta il collaborante, le famiglie catanesi avrebbero appoggiato l’Mpa fondato nel 2005 da Raffaele Lombardo. Spesso per più di un candidato. In cambio di soldi, di future facilitazioni nei rapporti con la pubblica amministrazione o, più semplicemente, di posti di lavoro per sé o parenti. Uno sforzo poco ricambiato, soprattutto da parte di Raffaele Lombardo. «Tutti si lamentavano che, dopo le elezioni, era scomparso. Perché si era montato la testa, dicevano alcuni, oppure con la scusa delle indagini dei Carabinieri». Al contrario del fratello Angelo «che incontrava chiunque, anche personaggi di basso livello. U so nomu caminava no sacciu comu…».

Nel 2006, comunque, l’appoggio del clan Cappello sarebbe andato a Giovanni Pistorio, attraverso la mediazione di Peter Santagati e Salvatore Vaccalluzzo. Imprenditore della cooperativa Creattività il primo, pressato dai politici – nei racconti di D’Aquino – per posti di lavoro in cambio degli appalti. E soprattutto da Raffaele Lombardo, il fratello Angelo e il presidente dell’autorità portuale Santo Castiglione. «Uno dei più famosi usurai di Catania» invece Vaccalluzzo, ucciso nel 2006, poco dopo le elezioni. All’inizio scettico «perché era già stato deluso dai politici», sarebbe stato convinto proprio da D’Aquino a incontrare Raffaele Lombardo e a trattare l’appoggio elettorale per Pistorio. Che avrebbe potuto sistemare uno dei suoi figli, laureati in medicina. Giovanni Pistorio, eletto all’assemblea regionale nel 2001 con l’Udc – partito nel quale, allora, militava anche Lombardo – nel 2004 diventa infatti assessore regionale alla sanità. Nel 2005 prende parte alla fondazione dell’Mpa e l’anno dopo viene eletto senatore tra le file di questo partito.

Nel 2008 invece Gaetano D’Aquino – che lega i ricordi delle elezioni con quelli delle partite del Catania Calcio – si sarebbe occupato poco di politica. Al contrario di Sebastiano Fichera del clan Sciuto-Tigna, racconta, impegnato per ben due candidati: Ascenzio Maesano e Angelo Lombardo. «Io gli ho detto che non poteva scimunire per due – dice il collaborante – ma lui mi ha detto di non preoccuparmi e che così aveva il posto sicuro per suo cognato». La parte Sud della città – Librino con l’aiuto della famiglia Arena, San Giorgio, Villaggio Sant’Agata – era stata scelta come bacino elettorale di Maesano. Il centro invece – via della Concordia, San Cristoforo, via Plebiscito, zona Cappuccini – per Angelo Lombardo. «Mi ricordo che dal palazzo di cemento, a Librino, partivano i pullman per portare la gente a votare – racconta il pentito – Per essere sicuri che non fossero assentisti». Quasi si trattasse di un lavoro, retribuito «con il solito metodo: pacchi di spesa oppure, per chi non li voleva, soldi». A rivendicare l’amicizia con il fratello del governatore anche Fabrizio Pappalardo del clan Pillera, sempre secondo D’Aquino: «Diceva sempre “Angelo è amico nostro”, quasi con un senso di appartenenza, come se fosse geloso».

Dichiarazioni, quelle del collaboratore, troppo generiche secondo le difese. A parlare con i due imputati, infatti, non sarebbe mai stato D’Aquino in persona. Tra lui e i fratelli Lombardo c’è sempre di mezzo un racconto di una terza persona oppure uno o più intermediari. «Quasi tutte persone a cui non è possibile chiedere un riscontro, perché decedute», sottolinea lo stesso governatore all’uscita dall’aula. Che aggiunge: «Non sa fare poi nemmeno un nome delle persone che io avrei fatto assumere». Né precisare tempi e modi dell’appoggio elettorale al suo partito.

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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