Ha ricevuto per quattro anni la pensione di reversibilità del padre e poi, quando ha smesso, l'Istituto nazionale di previdenza sociale ha dichiarato il suo decesso. «L'impiegata mi ha detto "Guardi che porta fortuna"», racconta oggi l'uomo, che sarebbe passato a miglior vita 17 anni fa
L’Inps lo dichiara morto nel 1997 «Ho dovuto certificare di essere ancora vivo»
Catania, 30 settembre 1997. Giuseppe, 22 anni, ha ricevuto per quattro anni una pensione di reversibilità a seguito della morte di suo padre. Con quei soldi, ha completato gli studi universitari e adesso il suo diritto a percepire una somma mensile – erogata dall’Istituto nazionale di previdenza sociale – è giunto al termine. A dirla con un termine tecnico, il suo diritto è decaduto. Ma una vocale sbagliata unita al fatto che quando uno smette di percepire una pensione, di solito, è perché è passato a miglior vita hanno spinto i solerti impiegati dell’Inps a dichiarare Giuseppe «deceduto». «Quando mi sono visto arrivare a casa quella lettera, sono andato agli uffici di Catania e lì mi hanno detto di stare tranquillo, che non ci sarebbero stati problemi in futuro», racconta l’uomo, che adesso, col beneplacito della previdenza sociale italiana, di anni ne ha 39 e, a causa di un cambio di residenza, si trova in questi giorni a dover richiedere e consegnare un «certificato di esistenza in vita».
Diciassette anni fa, al momento dell’errore, Giuseppe non gli ha dato troppo peso: «Ero giovane, non lavoravo, non mi sono dato pensiero». In effetti, quando poi è cresciuto e ha iniziato a lavorare in un’azienda i contributi venivano regolarmente versati per lui, e l’Inps non aveva niente da obiettare se qualcuno continuava a pagare per un morto. «I problemi sono arrivati dopo, quando è nato mio figlio, sei anni fa, e ho chiesto il congedo parentale», racconta.
Non riusciva ad accedere al suo profilo sul sito dell’Inps, così ha telefonato al call center: «L’imbarazzata impiegata non sapeva come dirmi che per lei ero morto». Così ha passato la palla al suo responsabile: «La data del mio decesso era quel 30 settembre 1997». Cinque anni fa, Giuseppe tramite un patronato ha consegnato un certificato che attestava il suo essere ancora in vita: «Si tratta di un documento rilasciato dal Comune – spiega – Ma non è che te lo danno perché sei lì, vivo, davanti a loro. Te lo danno perché non trovano certificati di morte che ti riguardino». Insomma: non sei vivo perché sei vivo, sei vivo perché non sei morto.
Sembrava che tutto si fosse sistemato, «ma evidentemente il problema non era stato risolto, perché adesso che mi sono trasferito e che i miei documenti sono passati dall’Inps di Catania all’Inps di Mascalucia sono morto di nuovo». Provando ad accedere al suo profilo di previdenza sociale ha avuto di nuovo problemi, proprio come nel 2009. «Ho telefonato, di nuovo, al call center e, di nuovo, un’imbarazzata dipendente mi ha comunicato il mio decesso». La trafila, quindi, deve ricominciare: «Certo – ride – non devo necessariamente ritirare il certificato al Comune. Posso pure autocertificare che respiro ancora, nonostante tutto». E oltre al fastidio, la beffa: «L’impiegata mi ha detto “Guardi che porta fortuna”».