L’incanto celato dietro gli aculei del riccio

Una bambina di dodici anni, una portinaia, un ricco signore giapponese. Tre vite, così diverse, si intrecciano e assumono un ruolo profondo l’una per l’altra. Sono le vite dei protagonisti del film “Il Riccio”, diretto da Mona Achache e tratto dal romanzo “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery.  
«Come si decide il valore di una vita?» Questa è la domanda che si pone la dodicenne Paloma, bambina di straordinaria intelligenza, ossessionata dall’idea della morte a tal punto da aver programmato il suicidio nel giorno del proprio compleanno. «La cosa veramente importante – afferma – non è la morte, ma cosa si sta facendo poco prima di morire» e per questo, nei 165 giorni che le restano da vivere, decide di girare un film prendendo a modello la sua famiglia. Lo scopo è quello di mostrare come le persone conducano la propria esistenza adeguandosi a un destino che viene loro imposto dalla nascita: a questo destino Paloma vuole sfuggire attraverso la morte. Rinchiusa nel suo piccolo mondo, al quale nessuno dei famigliari può avere accesso, la dodicenne osserva attraverso l’occhio della telecamera le vicende che si svolgono dentro casa e riesce a smascherarne in maniera acuta le profonde contraddizioni, mentre la sua intelligenza fuori dal comune è scambiata per anormalità dalla famiglia che la vorrebbe simile al resto dei suoi coetanei.  

L’arrivo nel palazzo di un nuovo condomino, Monsieur Kakuro Ozu, un ricco ed elegante signore giapponese, cambierà la sua vita. In lui la bambina riesce finalmente a trovare un interlocutore ideale e intrigante. Ma, soprattutto, è con lui che comincia a scambiare idee sulla portinaia, Renée Michel, un’altra figura enigmatica cui Paloma attribuisce le qualità di un riccio, «fintamente indolente, risolutamente solitario, terribilmente elegante».

Al ricco inquilino giapponese non sfugge che la donna, apparentemente insignificante, abbia dentro di sé qualcosa di speciale, un segreto. Il loro primo fugace incontro è coronato da un richiamo tolstojano al romanzo Anna Karenina per il quale i due, inaspettatamente, scoprono di condividere la passione. L’elegante gatto di Renée si chiama Lev, come l’autore russo, e i due gatti siamesi di Ozu hanno proprio i nomi di due personaggi del libro: Levin e Kitty. Questo interesse comune influenzerà intensamente il loro rapporto e costituirà le fondamenta per la nascita di una profonda unione intellettuale.

Grazie al nuovo inquilino, Renée subisce una lenta e incisiva trasformazione che parte dall’espressione del suo volto. In questo l’attrice Josiane Balasko è riuscita benissimo, grazie ai suoi giochi d’espressività che lasciano trasparire l’evoluzione emotiva del personaggio: severamente arcigni  all’inizio della storia, i lineamenti di Renée si addolciscono man mano che la conoscenza con Ozu si approfondisce. Nell’uomo la portinaia ritrova un motivo per ricominciare a vivere e per riappropriarsi di una identità e di una femminilità che aveva dimenticato di avere.

L’eccezionalità del personaggio di Ozu risiede nei suoi modi garbati e armoniosi, in sintonia con la cultura giapponese che possiede, e nel suo sguardo penetrante che va oltre apparenze e convenzioni sociali, lì dove si incontra con le paure di Reneé e riesce a scioglierle.

Come spesso capita quando si realizzano delle trasposizioni cinematografiche di opere letterarie, non sono mancate le polemiche da parte dell’autrice del bestseller “L’eleganza del riccio” al quale il film è ispirato. Muriel Barbery, che inizialmente aveva deciso di collaborare con la giovane regista Mona Achache nella stesura della sceneggiatura, si è poi pentita di aver ceduto i diritti cinematografici e ha negato il diritto di utilizzare il titolo originale. In più interviste ha infatti evidenziato la distanza esistente tra il romanzo e il suo adattamento filmico. Ciononostante, le atmosfere del libro sono sapientemente ricreate e questo potrebbe dirsi uno dei pochi casi in cui un’opera cinematografica riesca a non deludere i lettori del romanzo da cui trae ispirazione.
Il film, pur trattando una tematica esistenziale, è leggero e scorrevole perché filtrato attraverso lo sguardo ingenuo e disincantato di una bambina e arricchito da intermezzi animati in cui i disegni di Paloma prendono vita e si sovrappongono alle immagini reali, facendo immedesimare lo spettatore nel suo fantasioso mondo.  

Le musiche di Gabriel Yared − compositore di molte colonne sonore di successo di film come “Il paziente inglese”, vincitore dell’oscar nel 1997, “Il talento di Mr.Ripley”, “Ritorno a Cold Mountain” e “City of Angels”− si inseriscono delicatamente nel tessuto scenico e contribuiscono alla creazione di un’atmosfera da sogno.

Il montaggio, a cura di Julia Gregory, gioca sull’alternanza tra le inquadrature e le riprese amatoriali girate con la piccola telecamera di Paloma, creando un ritmo narrativo lento e contribuendo a mostrare le vicende attraverso il filtro emotivo della bambina. La scelta di affidare una telecamera in mano alla giovane protagonista non è che una soluzione stilistica che consente alla esordiente regista Mona Achache di tradurre in immagini la forma diaristica del romanzo, consentendo così ai personaggi di Paloma e Renée, entrambi personificazioni del riccio del titolo, di confessarsi davanti al pubblico.
Nessun effetto speciale, nessuna comicità scadente, eppure quando le luci della sala si riaccendono il pubblico ammutolito dovrà impiegare qualche secondo in più del consueto prima di riprendere i contatti con la realtà.


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