Sull'Isola, la giornata che ha sancito la fine del nazifascismo in Italia è arrivata due anni prima. Un periodo controverso, nel quale si sono sperimentati i principi del pluralismo, lasciando in eredità alcuni temi e valori. Ma non altri, che sembrano essersi persi. L'analisi di Rosario Mangiameli, docente di Storia contemporanea
Liberazione, laboratorio Sicilia dopo lo sbarco alleato «Pace a metà tra democrazia, partiti e autonomismo»
«Una società provata dal fascismo e dalla guerra ma che riesce a entrare in contatto con i principi della democrazia». È questa l’istantanea della Sicilia del 1943, un’Isola che sperimenta prima lo sbarco delle forze Alleate, con l’operazione Husky, e successivamente due anni di interregno sotto la guida dell’amministrazione militare. Mesi di sussulti ma anche di isolamento, in cui la popolazione «vive una pace a metà» fino alla liberazione dell’Italia il 25 aprile 1945. «Dalle nostre parti c’è stato un dopoguerra precoce rispetto al resto del Paese, anche se bisogna sottolineare come molti giovani siciliani, dopo il 1943, restarono comunque impegnati nel conflitto o nella resistenza al Nord». A ripercorrere questo periodo per MeridioNews è il professore Rosario Mangiameli, docente di Storia contemporanea all’università di Catania. Tra valori e temi che ritornano, e altri che sembrano essersi persi per strada.
Tra i nodi principali del periodo in questione c’è sicuramente quello politico. Il governo militare Alleato non aveva obiettivi definiti e portava avanti come scopi prioritari quelli di fare rispettare la legge e l’ordine, sfruttando il personale della burocrazia italiana. In questa ottica possono essere lette le prime manovre che portano al consolidamento dei partiti nell’Isola: «Qualcuno pensava di conservare i privilegi, come i latifondisti appoggiati dalla mafia – spiega Mangiameli – c’era poi il movimento contadino e chi guardava alla democrazia. Ed è proprio su questo punto che si apre il dibattito politico in Sicilia». A prendere piede sono anche le spinte separatiste ma il vero punto di svolta «è il collegamento che avviene tra i partiti del Sud e quelli del Comitato di liberazione nazionale, con i suoi schemi e un concetto di democrazia che diventa centrale nell’attività politica siciliana».
A segnalare la differenza tra la Sicilia e il Nord Italia nell’«approccio alla libertà» è il modo con cui si è raggiunta la cacciata del regime di Benito Mussolini. «La nostra società entra nella democrazia con l’esercito mentre in Lombardia, per esempio, ci sono la Resistenza e una vera e propria guerra civile». La Sicilia diventa così anche un laboratorio per sperimentare i «temi autonomistici che successivamente porteranno alle prime elezioni per l’Assemblea regionale siciliana» del 20 maggio 1947.
Da allora a oggi quello che sembra certo è che il rapporto tra i cittadini e i partiti è sensibilmente cambiato. Oggi i simboli dei partiti tendono a nascondersi alle elezioni, a vantaggio di schieramenti civici. «Quella della Liberazione era una situazione nascente di democrazia che poi portò al boom economico e alla crescita dell’Italia. Nonostante le difficoltà di adesso, però, restano alcuni segnali, come l’esito dell’ultimo referendum che ha consentito di mantenere la Carta costituzionale realizzata proprio da quei partiti».
Così come sembra restare anche un altro tema centrale nella politica di oggi: il vitalizio di deputati e senatori. Di cui si discuteva anche prima del Movimento 5 stelle. Ad anticiparlo fu «Giuseppina Vittone, deputata e moglie di Girolamo Li Causi, senatore e primo segretario siciliano del partito comunista – racconta Mangiameli – La partigiana, candidata nel 1955 all’assemblea regionale siciliana, rifiutò lo stipendio dopo l’elezione». Un gesto etico, forse unico nell’Italia dell’epoca, che venne giustificato senza giri di parole: «Disse che in famiglia c’era già quello del marito e che quindi poteva bastare. Certo non parliamo delle cifre di adesso, ma di una paga dignitosa per chi sicuramente non viveva nella ricchezza».