Liberare gli schiavi della grotta

François e i suoi colleghi sono all’inizio di un nuovo anno scolastico in un quartiere “difficile”. Davanti a lui venticinque ragazzi d’ogni lingua e colore. I suoi metodi non sono né rigidi né tradizionali e spesso la sua franchezza sorprende i suoi alunni. Ma l’etica del prof viene messa a dura prova quando alcuni studenti contestano i suoi metodi… In Francia c’è chi ha dichiarato di odiare il film tratto dal romanzo di François Bégaudeau, altri lo amano incondizionatamente. La giuria di Cannes 2008 ne è rimasta incantata e lo ha premiato con la Palma d’oro.

È da snob usare il congiuntivo? Io credo di no, ma come la pensa François, il prof. di “La classe” (Entre les murs)? Perché è questo che dice ai suoi studenti: “Prof, ma nessuno parla così! Ma che io dico alla mia mamma: vorrei che tu facessi?!” Certo sarebbe stato complicato dire che il congiuntivo serve per modulare l’espressione del pensiero quando si vuole comunicare un certo senso, più che il significato, di una frase, e il prof. altre volte ci prova a dire cose complicate, ma questa volta no, ammette che il congiuntivo è da snob, poi però deve spiegare cosa vuol dire snob: sembra che i suoi studenti non siano nemmeno consapevoli di stare al di qua di una barriera linguistica da una parte della quale ci stanno loro e dall’altra gli snob col congiuntivo; forse avrebbe potuto dire che in un colloquio di lavoro sbagliare un congiuntivo ti può precludere l’assunzione, buttarla sull’uso pratico della lingua, che è come un abito, bisogna mettersi giacca e cravatta per entrare in certi locali, cioè non ha un senso “vero”, è una convenzione, una cosa da snob…forse è così che la pensa il prof.? Perché in realtà a seguire questo insegnante si resta un po’ perplessi su come la pensi veramente.

Per esempio: lui è davvero convinto che Souleymane abbia delle qualità che vanno valorizzate? Che dietro la maschera da bullo del ragazzino originario del Mali ci sia un’esigenza soffocata di comunicazione, e una protesta vagamente consapevole contro le modalità di comunicazione che gli vengono offerte-imposte? Sembra di sì quando gli fa fare il proprio “autoritratto” tramite una raccolta di foto con didascalie, e poi le appende in classe e chiama tutti a guardare “il capolavoro” di Souleymane: ma in questa frase non ci si può sentire una punta di sarcasmo? E poi in consiglio di classe lui è l’unico che difende il ragazzo, che ne propone un’immagine non del tutto negativa in contrasto con gli altri colleghi, ma poi riconosce che Souleymane “ha i suoi limiti…” e due ragazzine malignamente trascrivono la frase, la riferiscono al loro compagno, lo mettono contro l’unico professore che lo aveva difeso, e il prof. si fa incastrare, perde la calma, insulta le ragazzine. Nasce un tafferuglio in cui tutte le “posizioni” sono confuse, i torti e le ragioni mescolati e capovolti. Risultato: il consiglio di disciplina espelle Souleymane, e il prof. rischia un’ammonizione, insomma una doppia sconfitta, per lui che anche rispetto all’azione del consiglio di disciplina (12 espulsioni in un anno scolastico!) aveva espresso una critica non sostenuta dagli altri. Ma era una critica poco convinta, e l’interesse verso Souleymane appare sostanzialmente assente.

Sembra che non risponda mai davvero ai suoi alunni, li lascia parlare, a volte cerca di giustificare e altre volte di imporre il suo ruolo, così che l’identità culturale, e forse semplicemente umana più che professionale, la personalità di questo insegnante appare incerta (usare o no i provvedimenti disciplinari? fare un rapporto paritario, diretto con gli alunni, o pretendere le formalità? insegnare la lingua colta o accettare qualsiasi forma espressiva? ecc.): il film è la presentazione schietta, priva di qualsiasi orpello narrativo di questa incertezza.
Ma è davvero incertezza?  Questa guadagnerebbe tutta la nostra simpatia, il film sarebbe la testimonianza del lavoro quotidiano di un insegnante che affronta un compito difficilissimo e che offre a tutti coloro che stanno fuori dai quei muri, il resoconto del proprio impegno come stimolo a fare altrettanto, cercare, tra tentativi, errori, successi e insuccessi, la via per l’integrazione, il dialogo, la crescita collettiva di un gruppo fatto di tante culture, esperienze, identità diverse. Ma il film dà un’impressione diversa. Per esempio il finale: quella ragazzina che alla fine dell’anno dichiara di non aver appreso niente e lascia il prof. come inebetito; e quell’altra che ha provocato l’incidente che è costato l’espulsione al suo compagno, senza che il prof. abbia saputo opporre niente, nessuna chiarezza, al suo comportamento subdolo e che alla fine lo sorprende rivelandosi lettrice niente di meno che della “Repubblica” di Platone. Che vuol dire?

Possiamo rinunciare a cercare un senso particolare a questa e ad altre scene, accettando che il film sia una sorta di documentario,  il cui senso complessivo è quello di una sconfitta, un’incapacità, impossibilità di dare unità alla classe, di realizzare uno scambio vero, proficuo, sia nel rapporto prof.- alunni sia in quello degli alunni tra loro, oppure possiamo fare un tentativo, magari un po’ azzardato, di riflessione più approfondita.

Il prof. ha proposto come lettura alla classe il Diario di Anna Frank, ne ascoltiamo una pagina, l’ultima, una delle più toccanti (e non solo perché sappiamo che è l’ultima) in cui Anna parla di sé in termini di sdoppiamento: “La mia anima è divisa in due” c’è l’Anna “più pura e più profonda” e c’è quella “leggera” che non si scandalizza per un flirt, per un bacio. Il prof. non commenta, accenna alla storia tragica di Anna, ma poi si limita a proporre quel brano come un esempio perché ciascuno parli e scriva di sé; e quello è un brano in cui la piccola Anna Frank paga lo scotto di un’educazione improntata all’eterno platonismo della scissione tra corpo e anima, tra sensibilità e intelletto. Forse è questa l’ideologia del prof.? Forse si sente tra i muri della classe come nella grotta platonica in cui si contemplano ombre e ciascuno resta legato nel suo isolamento, forse c’è un fondo di scetticismo nel suo darsi da fare?

Forse…ci vuole un’altra idea delle possibilità degli altri, tutti uguali-diversi,  e delle possibilità di rapporto in cui non ci si limiti a contemplare l’autoritratto che ciascuno fa di sé, a lasciare ciascuno con il proprio autoritratto (vedi la scena dell’ultima lezione) ma ci si incontri davvero, sapendo che è possibile opporsi alle dinamiche negative senza soggiacere al meccanismo arido delle procedure burocratiche; come è possibile dare risposte, da parte di chi ha qualcosa da dare, per esempio un prof. a una classe di adolescenti, captando il loro desiderio. Forse ci vuole un altro “sentire”, un rifiuto netto dell’eterno platonismo. Forse ciò che voglio dire lo fa vedere un altro film di questa stagione, dove c’è uno che non resta tra i muri ma scende nella grotta e porta fuori gli altri… mi riferisco al bellissimo Parada in cui Marco Pontecorvo narra la storia del clown Miloud, vi sembra fuori luogo il paragone?


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