A far uccidere la figlia sarebbe stato il padre, Antonino Pipitone, boss dell’Arenella. Alcuni collaboratori di giustizia, però, tirano in ballo anche il marito della donna, Calogero Cordaro. Il legale: «Ammissione pericolosissima. Lui fu intimidito dal suocero»
Lia Pipitone, il processo 33 anni dopo l’omicidio «Tutti quelli di Cosa nostra sapevano chi è stato»
«Uccidere era come andare a comprare il pane per noi mafiosi». A pronunciare con freddezza questa frase è Angelo Fontana, uno dei collaboratori di giustizia che ha fornito la sua personale ricostruzione dell’omicidio di Lia Pipitone, avvenuto il 23 settembre 1983, durante la messinscena di una rapina all’interno di una sanitaria in via Papa Sergio. Lascia un figlio di quattro anni, Alessio, e un marito da cui pare volesse allontanarsi, Calogero Cordaro. Dopo 33 anni, il 23 giugno si terrà l’udienza preliminare del processo per vedere riconoscere Lia vittima di mafia. Perché sono diversi i pentiti che, nel corso di questi anni, si sono sbottonati su questa uccisione, accusando il padre della giovane donna, Antonino Pipitone, di essere il mandante. Pare che il padre, all’epoca boss dell’Arenella, fosse venuto a conoscenza di una relazione extraconiugale della figlia. E Cosa nostra non può tollerare l’adulterio. Quindi, se Pipitone voleva rimanere un uomo d’onore, doveva uccidere o far uccidere la figlia. Qualcuno, però, punta il dito anche contro Cordaro. «Il marito andò da suo suocero Nino Pipitone a dire che sua figlia gli aveva fatto le corna e lui voleva soddisfazione». A dirlo durante un interrogatorio del 14 febbraio 2014 è Giovanna Galatolo, figlia del boss dell’Acquasanta, Vincenzo Galatolo, al quale Pipitone avrebbe chiesto una sorta di permesso prima di agire e che avrebbe commesso il delitto insieme al nipote Angelo Galatolo.
«Lo dice come a cercare una sorta di giustificazione per la decisione presa dalla sua famiglia» dice Nino Caleca, legale della famiglia Cordaro, convinto che il marito di Lia sia stato tirato in ballo solo per attenuare il ruolo dei Galatolo nella vicenda. A presumere un coinvolgimento diretto di Cordaro, però, è anche un altro pentito, Angelo Fontana, nipote del boss dell’Acquasanta: «Ricordo di avere appreso che era stato il marito ad informare Nino Pipitone della relazione extraconiugale della figlia» dichiara nell’interrogatorio del 20 febbraio 2012. Ma questa ricostruzione, secondo Caleca, non trova alcun riscontro con i fatti accaduti. «Questa è un’ammissione pericolosissima – dice il legale – Cordaro non disse mai nulla di questa relazione extraconiugale, era solamente una vox populi».
Di certo c’è che nell’ottobre 2012 Calogero Cordaro assume le vesti di indagato. Si presenta spontaneamente di fronte alle autorità per riferire alcune circostanze sulla morte della moglie che aveva omesso di indicare in occasione della testimonianza resa alla Corte d’Assise di Palermo nel 2003. «Ho mentito ai giudici». Viene indagato, dunque, per il reato di falsa testimonianza. Anche se il legale precisa che non avrebbe mentito, ma omesso alcuni dettagli perché intimidito dal suocero. «Con tono risentito e autoritario mi disse che aveva seri problemi di salute e che pertanto avrei dovuto dichiarare il meno possibile altrimenti lui dal carcere non sarebbe più uscito» spiega lo stesso Cordaro a proposito delle presunte pressioni subite da Pipitone durante il processo e prima della sua deposizione. «Dissi che il processo era un’opportunità al fine di fare dichiarare Lia vittima di mafia» continua il marito. Un riconoscimento che sembrerebbe motivato anche dalle numerose dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. «Questo è stato un omicidio eclatante» citando ancora il pentito Fontana, «dentro Cosa nostra se ne parlava, innanzitutto perché Pipitone doveva salvare l’onore della famiglia. La figlia è stata uccisa perché disonorava il padre. Insomma – prosegue – prima, dopo, durante…di questo fatto se ne parlava sempre».