Le rotte della droga in mano alle appendici della mafia «Io non mi posso fermare, per me questo è un lavoro»

«Ho venduto 50 valigie». Vale a dire hashish e cocaina, a fiumi. Anzi, di best e sky per dirla usando il gergo dell’ambiente. Il loro smercio resta, da sempre, uno dei canali più redditizi per Cosa nostra, che adesso sembra non sporcarsi neanche più direttamente le mani. A gestire i suoi affari, nelle piazze di Palermo, ci pensano infatti le sue dirette «appendici». Quelle organizzazioni quasi paramafiose, in un certo senso, che di giuramenti e patti d’onore sanno ben poco, ma che da boss e padrini sembrano aver preso, oltre che autorizzazioni e lasciapassare, parecchio spunto. Almeno a giudicare dall’atteggiamento dei membri del «sodalizio» sgominato con gli arresti di oggi. Tanto che gli investigatori parlano di un’«evidente insensibilità manifestata dagli indagati, unita a un’evidente spregiudicatezza». Non sembrava fermarli o scoraggiarli nulla, né le numerose operazioni messe in atto per fermare i traffici di droga (almeno otto solo da parte della polizia), né i sequestri, né i precedenti penali pendenti sulla testa di qualcuno della banda.

È insomma «un contesto organizzato», sullo sfondo del quale si denoterebbe «un’elevatissima pericolosità» dei soggetti coinvolti. Diciannove in tutto, di questi quindici sono finiti dietro le sbarre, mentre per gli altri quattro sono scattati i domiciliari. Quelle che avrebbero gestito, fino a ieri, sarebbero state cifre da capogiro, ben lontane da quelle tipiche di un’attività di vendita al minuto. «Io non mi posso fermare, per me è un lavoro, cambio tutti gli operai», diceva addirittura Paolo Di Maggio, intercettato nel 2017, all’indomani dell’arresto di un altro presunto complice della squadra criminale. Difficile forse per lui, indicato dagli inquirenti come uno dei vertici dell’associazione, rinunciare a quei «guadagni milionari» emersi con l’inchiesta. «Mi levarono un pelo i minchia…300 chili di fumo», avrebbe commentato un altro degli uomini oggi indagati in seguito al sequestro di alcune partite di stupefacente, tanto il danno era minimo rispetto alle proporzioni solitamente smerciate nelle piazze. E le intercettazioni, in effetti, sono piene di cifre, numeri e somme incassate che restituiscono l’enorme volume d’affari del gruppo: «Potevano investire e ricavare in sette giorni un milione e mezzo di euro», per citare le parole del capo della mobile di Palermo, Rodolfo Ruperti.

Ma tutti questi soldi dovevano, in qualche modo, essere tenuti sotto controllo, ben nascosti. Per questo tra i tanti ruoli attribuiti ai sodali c’era inevitabilmente anche quello del cassiere del sodalizio. Per gli inquirenti sarebbe stato Tommaso Marchetti, gestore di una pompa di benzina Eni in via Michelangelo: lui avrebbe raccolto le somme provenienti dallo spaccio, investite poinei successivi acquisti di nuove partite di droga, confondendo intanto i proventi illeciti con quelli puliti del distributore di carburante, dove a ogni operazione illecita venivano puntualmente disattivate le videocamere di sorveglianza, e della rivendita di tabacchi della sorella. Ed è chiaro che un giro di soldi tanto grosso non può passare inosservato, specie se avviene dentro un circuito da sempre targato Cosa nostra. Soldi che non servivano solo ad arricchirsi, ma che nell’eventualità sarebbero serviti anche per sostenere le spese legali dei complici finiti nel frattempo in galera, per spostarsi dalla Sicilia alla Campania più agevolmente usando denaro contante per non dare nell’occhio («ci sono 40mila euro a venti euro») o, ancora, per fornire agli altri sodali schede sim riservate per comunicare in modo più sicuro tra loro.

Atteggiamenti che palesano rapporti di piena solidarietà tra le persone coinvolte. E, ricalcando ancora una volta i modelli tipicamente mafiosi, anche nei traffici appena portati alla luce venivano spesso coinvolte congiunti e familiari: fratelli, cugini, genitori, suoceri. Ed è ai luoghi più prossimi, in un certo senso, che si guardava. A cominciare da abitazioni e magazzini dove sarebbero avvenuti alcuni incontri con gli spacciatori campani. Ma per conservare la droga capitava anche di affidarsi a capannoni come quello dei fratelli Basile, finiti anche loro in carcere, a Villagrazia di Carini, o nell’autorimessa di un altro sodale, in via Parisio, alla Noce. O approfittando, altre volte, degli spazi messi a disposizione da attività fittiziamente intestate, come nel caso della Bottega dell’angolo in via Brunelleschi, che per gli inquirenti sarebbe riconducibile ai vertici del sodalizio criminale.


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