Le discussioni intercettate tra gli uomini della famiglia di Borgo Vecchio, finiti in manette stamattina nell'operazione Resilienza, disegnano uno spaccato in cui la mafia ha sempre più difficoltà a ottenere omertà e obbedienza, anche nelle sue roccaforti storiche
Le estorsioni e la colpa dei commercianti «sbirri» La nostalgia del clan: «Non è più come una volta»
«In questa carnezzeria ci puoi andare, qua ci puoi andare, qua ci puoi andare, questo pagava, questo è sbirro, quello pagava, questo è sbirro, non ci andare». Dura la vita dei clan, con il racket delle estorsioni che diventa un’attività sempre meno redditizia e sempre più pericolosa. E non fa eccezione in questo periodo di crisi la famiglia di Borgo Vecchio, per cui il pizzo è stata attività centrale dell’economia dell’organizzazione.
È con i contributi di negozianti ed esercenti che si sostengono le famiglie dei carcerati e con gli stessi soldi si organizzano le feste di quartiere, si invitano i cantanti importanti, i neomelodici più in voga. Ma Borgo Vecchio non è più terreno facile. Non lo era già tre anni fa, quando furono proprio i proprietari dei negozi, vessati dal clan, a fornire gli elementi chiave per stringere le manette intorno ai polsi agli uomini di quella che ormai è la vecchia gestione della famiglia mafiosa.
E proprio tre anni fa, mentre Elio Ganci, boss del rione gradito ai Tantillo, varcava le mura del carcere, a ritrovare la libertà era Angelo Monti, che non ci ha messo molto a prenderne il posto. Uomini diversi, stessa storia, con la morsa del pizzo che continuava a stringere le attività del quartiere. Ma se nel 2017 i commercianti avevano denunciato sotto la spinta dei carabinieri, che avevano ritrovato il libro mastro con nomi, indirizzi e cifre dovute o saldate, questa volta la decisione è arrivata in maniera spontanea.
«Io ho quei 4-5 e me li tengo cari – si lamenta un uomo del clan, intercettato mentre parla con i suoi sodali – però appena viene a mancare uno, attummuliu pure io». Criticata anche la gestione della famiglia, che imponeva a chi era deputato alla riscossione del pizzo di mettere tutti i soldi in una sorta di cassa comune, ‘u vacilieddu. E di tenere per sé solo uno stipendio che agli occhi dell’uomo intercettato sembra quanto mai esiguo. «Io campo con mille euro al mese – dice – e rischio 15 anni, 20 anni di galera».
«Non è più come una volta – si lamentano ancora i sodali – i cristiani su’ tutti sbirri», un richiamo nostalgico che fa il paio con la conclusione del discorso tra gli uomini di Monti: «Minchia, qua dovremmo prendere tutte cose nelle mani… vero è?».