Per alcuni detenuti l'organizzazione e la gestione del traffico di droga nell'istituto penitenziario era diventato un «lavoro a tempo pieno». Nel sistema scoperto dall'indagine Prison dealers dentro, fuori e attraverso le mura ognuno avrebbe avuto un ruolo preciso
Le conversazioni degli spacciatori del carcere di Augusta «Se si sparge la voce che non è buona, non si vende più»
«L’hai visto il telegiornale? Vedi che ora è reato». Rosaria Buda aveva avvertito il marito Dario Muntone che, dall’ottobre del 2020, l’articolo 391 ter prevede il delitto di accesso indebito a dispositivi di comunicazione in carcere. «Per chi li entra, non per chi ce l’ha», aveva risposto lui sereno continuando a portare avanti quello che oramai dalla sua cella dell’istituto penitenziario di Brucoli-Augusta considerava un «lavoro a tempo pieno». L’organizzazione del traffico di cellulari – compresi di sim card, caricabatterie, auricolari e cover – e droga che è stata scoperta dall’indagine Prison dealers della guardia di finanza di Catania e ha portato all’arresto di sedici persone.
Al vertice dell’organizzazione insieme a Muntone ci sarebbe stato anche un altro detenuto, Luciano Ricciardi. Tutti e due avrebbero diretto e gestito l’acquisto, l’introduzione e la vendita di droga e cellulari all’interno della casa circondariale. Un’operazione non semplice che per essere portata a termine avrebbe avuto bisogno di un meccanismo ben rodato e di diverse persone con ruoli strategici dentro, fuori e attraverso le mura del carcere. Il primo corriere sarebbe stato Michael Cusimano, cognato di Ricciardi perché fratello della compagna convivente. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, lui si sarebbe occupato di farsi consegnare la merce e di trasportarla nel tragitto iniziale. A custodirla in casa ci avrebbe pensato la moglie di Muntone, Rosaria Buda. Sarebbe stata lei, poi, a sistemarla nei pacchi seguendo le precise indicazioni del marito. Una volta confezionati «con pellicola e scotch», i pacchi sarebbero tornati nelle mani di Cusimano. Solo un breve passaggio per consegnarla a chi poi nel carcere l’avrebbe introdotta, ovvero il sovrintendente capo della polizia penitenziaria Michele Pedone.
Il 51enne, originario di Taranto ma in servizio in Sicilia, assegnato all’unità operativa di sorveglianza generale dell’istituto penitenziario del Siracusano avrebbe fatto da tramite tra il dentro e il fuori in cambio di mille euro a consegna. L’appuntamento per lo scambio è al parcheggio del pani cunzatu (pane condito), una storica gastronomia che si trova nel territorio di Agnone Bagni (ad Augusta) lungo la strada statale 114 che collega Catania a Siracusa. Per riconoscere «lo sbirro, l’amico mio che lavora qua», come Muntone definisce Pedone, c’è un tratto distintivo inequivocabile: «la tigna», cioè la testa pelata. Un piano organizzato nei minimi dettagli che è stato ricostruito con l’indagine nata, nel 2018, dopo l’avvio della collaborazione con la giustizia di Fabio Lanzafame, il primo pentito delle scommesse. Dalle sue dichiarazioni partono le intercettazioni: le conversazioni che destano la maggiore attenzione degli inquirenti sono quelle di Dario Muntone.
Dalla sua cella, usando una scheda intestata a un giovane originario del Bangladesh, sarebbe riuscito a fare conversazioni monotematiche con amici e parenti. Tra questi anche la cognata Giovanna Buda che, per l’organizzazione, si sarebbe occupata di acquistare i cellulari e gli accessori e di mettere a disposizione una Postepay ricaricabile su cui accreditare i soldi guadagnati dalla vendita dei cellulari in carcere. Un’attività che avrebbe gestito contabilizzando con grande precisione al cognato ogni movimento. In quella carta, da febbraio a ottobre del 2020, sono state contabilizzate ricariche per oltre 23.700 euro. Del resto, si paga la comodità di potere comunicare tranquillamente dal carcere e anche tra una cella e l’altra.
Uno degli argomenti principali tra i detenuti sarebbe stato la droga che, nel linguaggio criptico, diventava «la cosa bianca» o «la cosa verde» – in base al fatto che poteva trattarsi di cocaina ma anche hashish, marijuana e skunk – oppure anche «il bicarbonato con cui sgummarsi». E c’è chi per lamentarsi della qualità della sostanza stupefacente manda un messaggio sul cellulare di Ricciardi: «La puoi gettare, fa schifo». Lui, nonostante ipotizzi si tratti solo di «gelosia», vuole comunque porre rimedio perché «se si sparge la voce che non è buona, non si vende più». Anche perché pare che il gruppo dovesse fare i conti perfino con la concorrenza. «Si sono fumati la merda, ma io non mi posso appizzare il giro (non posso rimetterci il giro, ndr)», si preoccupa Ricciardi che, in un secondo momento, avrebbe provato a trovare una soluzione definitiva discutendo al telefono con un altro detenuto: «Dobbiamo parlare che siamo uomini, non bambini. Tu qua non devi vendere niente, neanche uno spillo».
L’obiettivo è mantenere il monopolio della piazza di spaccio del carcere, organizzata con tanto di pusher incaricati di vendere lo stupefacente in bracci specifici. La droga, secondo quanto appurato da MeridioNews attraverso gli atti dell’inchiesta, veniva acquistata a Catania con il tramite di uomini inseriti nel clan Cappello-Bonaccorsi. A fare riferimento a loro sono le dichiarazione messe a verbale da alcuni detenuti. «Il brigadiere si reca a Catania – si legge – per prendere i telefoni o la droga da Balsamo detto cicaledda». Nino Balsamo, cognato del capomafia Orazio Privitera, non è però tra le persone indagate in questa operazione. «Sentivo – conclude il testimone – che faceva dei commenti sui prezzi e che il brigadiere voleva mille euro a consegna». Gli inquirenti specificano che tra i fornitori ci sarebbero stati anche Santo Riolo e Michael Sanfilippo, fratello di Martino. Quest’ultimo, appartenente ai Cursoti milanesi, ha scelto di collaborare con la giustizia dopo un duplice omicidio, avvenuto ad agosto 2020, nel quartiere Librino, a Catania.