«Noi insegnanti siamo abituati a sentirci derisi», scrive l'insegnante Sergio Salamone. Un mestiere che si svolge tra colloqui, programmazione, correzioni e naturalmente diciotto ore settimanali di lezioni in classe. Insufficienti per molti, che non le considerano adeguate, chi insegna non «fatica». Non stupisce quindi che la notizia dell'aumento a 24 ore dell'orario di lavoro per gli insegnanti sia stata da alcuni accolta «in maniera quasi festante». Riprendiamo dal blog Del mio mejo una riflessione su cosa significa lavorare oggi, in tempi di austerità
Lavorare (così) stanca Essere insegnanti, anche a 24 ore
Cari vertebrati,
noi insegnanti siamo abituati a sentirci derisi.
Si può parlare di lavoro se siamo in classe per sole diciotto ore?
Non si prende in considerazione che le lezioni, almeno in teoria, si dovrebbero preparare; non si calcola il tempo impiegato ad incontrare psicologi, educatori, facilitatori linguistici; non ci si ferma a riflettere più di tanto sui momenti, essenziali nel nostro mestiere, di confronto (e di scontro) tra colleghi.
E quindi è ovvio che la bozza discussa alla Camera sull’aumento a ventiquattro ore della nostra attività lavorativa, a parità di stipendio, è stata accolta, da alcuni, in maniera quasi festante.
“Finalmente comprenderanno cosa significa faticare…”: è più di un brusio quello che si sente ascoltando trasmissioni radiofoniche, leggendo quotidiani, curiosando su internet.
Tanto per intenderci, quello che faccio mi entusiasma; poter relazionarmi alle piccole vite dei miei studenti è straordinario. Non baratterei la mia professione con quella di nessun altro. Proprio per questo non sono disposto a vederla umiliata; declassata.
E non vojo nemmeno limitarmi a difendere la mia categoria: è il male atavico dell’Italia. Mejo non perpetrarlo. Tuttavia, che si possa decidere, senza un dialogo con le parti sociali interessate, un aumento di sei ore, senza aggiungere un euro alla paga, grida vendetta.
In nome dell’austerità (finta, e limitata soltanto alla solita buona fetta della popolazione) si fa scempio di ciò che è stato conquistato neji anni. Un provvedimento di tal genere renderebbe ancora più tragica la situazione dei precari, peggiorerebbe ulteriormente il livello qualitativo dell’istruzione.
E’ vero, lo so già, in Germania si lavora di più; ma la retribuzione è superiore a quella italiana. Le scuole sono attrezzate ad offrire il mejo ai ragazzi di ogni età.
Non potremmo dire la stessa cosa del nostro paese.
Ma lo ribadisco, non ritengo di dover fare un discorso in difesa dei soli docenti. I lavoratori stanno perdendo terreno, relativamente ai diritti, in maniera trasversale. I metalmeccanici sono stati costretti ad accettare un contratto umiliante a Mirafiori. Chi si è ribellato, la Fiom, è stato espulso dalla fabbrica. E’ normale tutto ciò? Fino a quando potrà essere considerato tale?
E poi diciamolo ad alta voce: non bisogna lavorare di più. Un modello di sviluppo che sia veramente al servizio dell’uomo dovrebbe portarci a lavorare di meno, ad avere più tempo per noi, per i nostri affetti, per le nostre passioni.
La folle corsa che si fa, per stare al passo con un’economia malata, ci sta distruggendo.
E’ giunto il momento che i sindacati tornino a fare i sindacati. Ad unirsi. A portare avanti, compattamente, un’idea di reale progresso. Un nuovo rinascimento è ciò che tutti vorremmo; che si facesse ritorno, prepotentemente, alla persona.
Dunque non gioite se i professori lavoreranno di più. Io non ho gioito quando ho saputo che ji operai Fiat avrebbero avuto delle pause più brevi. Non gioisco se deji individui vengono piegati alla logica selvaggia della produttività.
Non mi rallegro se vengo a conoscenza di mariti e moji che non riescono mai a vedersi, e che, se pure riescono, non hanno nemmeno un istante per riconoscersi in un bacio. Non mi entusiasmo se so di bambini costretti a crescere senza le loro madri coraggio (lavoratrici, e sì, senza alcun dubbio, tenaci dee).
Lavorare (così) stanca.
Spero che si possa fare nuovamente protesta.
Spero che alla gente ricca si chiedano ji stessi sacrifici che sono stati chiesti a chi è in difficoltà.
Spero che non rimarremo ancora con la testa china su ciò che facciamo.
Come Zampanò, che non seppe mai nulla del cielo.
[Foto di ccpixel – il post originale di Sergio Salamone è sul blog Del mio mejo]