L’avaro

La scenografia che esce fuori dalla scena incuriosisce, all’ingresso in teatro. Ma quando si alza il sipario, quello che si vede spiazza. Terra, polvere, mucchi di robaccia, una scala diroccata, un angolo di palazzo signorile, ma di sbieco, un letto su un mucchio di ciarpame, in alto, come in prigione, fuori e sopra il mondo che l’avaro domina col suo denaro.
Ai suoi piedi, i figli complottano per impadronirsi di quel denaro tanto gelosamente conservato, tanto inutile dentro una cassetta grigia, mentre loro si struggono per un amore impossibile e per l’avarizia del padre che impone loro rinunce e privazioni.

La regia di Gabriele Lavia, abituato a toni più noir, non delude di certo, e la sua prova di recitazione è superba, riuscendo a variare dai toni più drammatici a quelli più squisitamente comici.
Non condivisibili invece le scelte di caratterizzazione di alcuni personaggi. Cleante è figlio un po’ dandy e con una voce insopportabilmente in falsetto. Elisa, figlia prediletta, anacronisticamente vestita come una punk, infantile e petulante.

L’accentuazione dei tratti e dei gesti risponde certo alla tradizione della commedia dell’arte e all’intento di acuire il divario generazionale tra i personaggi in scena. Ma certe scelte non mancano di suscitare sorpresa e un pizzico di perplessità. Mariana, la sposa bambina che l’avaro crede di poter comprare a poco prezzo, entra in scena con tutù e scarpette da ballerina, volteggiando leggera sulla terra di cui è cosparsa la scena. Un contrasto stridente ed efficace, ma allo stesso tempo straniante.

 

Siamo a vedere un balletto o una commedia? Perché di commedia si tratta, nonostante l’alto valore drammatico della storia di un uomo imprigionato dalla sua stessa avidità, una vita che si trascina nella malattia (“l’acqua, è la panacea per tutti i mali”), nella costante preoccupazione di avere i ladri in casa, nella conservazione di quel denaro che rappresenta se stesso, il proprio esistere. Senza il suo denaro, l’avaro muore (“Non c’è nessuno che vuole resuscitarmi rendendomi il mio denaro?”).

Lo spettacolo si articola tra esilaranti battute che hanno coinvolto anche alcuni inconsapevoli spettatori in prima fila, complici tutti del furto dell’identità insieme alla sparizione del denaro, tutti ugualmente sospetti, e momenti drammatici sottolineati dall’uso sapiente delle luci e da figure che si succedono sulla scena a rappresentare una completa corte dei miracoli, avida solo di vita a differenza dell’avaro che la vita crede di conservarla conservando il proprio denaro.

L’immancabile lieto fine, con il tradizionale meccanismo di agnizione (triplice e con relative coppie felici), restituisce intero il dramma di un uomo solo, che resta sul suo letto abbarbicato su inutili tesori accumulati, mentre gli altri escono di scena, incontro alla loro nuova, ricca vita.


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