L’attentato di Capaci raccontato da un sicario di Cosa nostra  «Per la strage tutti hanno contribuito, anche chi non voleva»

Il forestiero italo-americano esperto di esplosivi. Le prove di detonazione a Catania facendo saltare in aria alcune auto. Il T4. I preparativi per l’attentato del 23 maggio ’92. Tornano in aula i ricordi di Maurizio Avola, spietato sicario di Cosa nostra. Collaboratore dal ’94, si è autoaccusato di oltre 80 omicidi, «cosa più cosa meno», anche eccellenti. Oltre ad aver ammesso di avere avuto un ruolo nella fase preparatoria della strage di Capaci. È per questo che viene sentito oggi a Caltanissetta, nelle vesti di teste imputato di reato connesso, al processo d’appello Capaci bis, che vede imputati Salvatore Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. «Ho conosciuto un forestiero esperto di esplosivi a Catania, a casa del boss Aldo Ercolano, rappresentante della famiglia di Nitto Santapaola – inizia il suo racconto -, poteva essere marzo-aprile ’92, sicuramente prima della strage. Ercolano mi diceva che questo era un uomo di Cosa nostra americana, di John Gotti e della famiglia Gambino. Nella prima fase io non ho partecipato a niente, mi sono limitato a provare a distanza tra Catania e Aci Castello i rilevatori elettronici».

Il ruolo chiave, in questa fase, sarebbe stato ricoperto proprio da questo forestiero venuto dagli Stati Uniti. Arrivato fino in Sicilia appositamente per addestrare Avola e non solo su alcune nuove tecniche elettroniche da applicare all’utilizzo degli esplosivi. Perché proprio lui? Che c’entra l’America con la strage di Capaci? «Mah… si diceva che il motivo fosse perché Falcone aveva dei contatti con l’FBI», spiega Avola. Che non sa, però, se effettivamente quest’uomo abbia preso parte all’attentato del 23 maggio o se il suo intervento si sia limitato alla fase preparatoria. Ma chi è questo italo-americano? Avola non ricorda più il suo nome. «Era poco più alto di un metro e ottanta, capelli scuri, sui 90 chili, vestiva elegante e di scuro, parlava in un italiano un po’ così diciamo. Era venuto dall’America per insegnarci come piazzarlo, come usare le frequenze giuste, come utilizzare insomma questo esplosivo». È il T4«un tipo potentissimo, morbido tipo il pongo, di colore senape o marrone scuro, largo una decina di centimetri. È Ercolano a dirmi di preparare due di questi bidoni pieni».

A Cosa nostra palermitana lo consegna proprio Avola: «Mi sono spostato da Catania a Termini Imerese con Marcello D’Agata». Lui è un altro fedelissimo di Santapaola e sarà ascoltato a Caltanissetta nel corso della prossima udienza. Tutti e due, Avola e D’Agata, sono stati entrambi iscritti, pochi mesi fa, nel registro degli indagati dalla procura nissena per la strage di Capaci. «Abbiamo trasportato l’esplosivo su una Fiat Uno bianca, mi faceva da spoletta uno che non era stragista ma voleva partecipare (D’Agata appunto, ndr) su una Fiat Uno diesel verde. Io ho consegnato l’esplosivo e i bidoni ad aprile, i telecomandi li abbiamo dati undici giorni prima della strage di Capaci – racconta -. Non so se serviva tutto per Capaci, può essere che serviva pure per Borsellino», ipotizza. «A Catania – continua il pentito – sotto la direzione di questo italo-americano avevo già fatto alcune prove di esplosione, mettendo l’esplosivo nel cofano di un’auto. Lui era venuto apposta, sapeva che si dovevano fare degli attentati eclatanti in Sicilia, non sapeva i nomi. A me Ercolano giorni prima che arrivasse mi aveva detto che sarebbe arrivata questa persona che aveva dimestichezza con l’esplosivo, mi disse che potevo approfittare di quell’occasione per apprendere da lui qualche tecnica più sofisticata. So che oltre a me avrebbe dovuto addestrare altri soggetti coinvolti nella strage». 

È un’epoca, quella, in cui tra boss e uomini d’onore non si parla d’altro. «Cosa nostra nella sua megalomania doveva fare la guerra allo Stato, si diceva, attentati in alta Italia, si doveva cominciare dai magistrati. Non si parlava neanche di stragi ma di omicidi eccellenti, come quello del pm di Mani pulite Di Pietro – spiega Avola -. Riina in persona già nell’88 mandava a dire che Falcone doveva essere ucciso, era da tempo nel mirino, da molto prima del ’92. Si era parlato anche di ucciderlo a Roma, ma Ercolano si oppose perché ancora non aveva un incarico di peso. Io ero già stato coinvolto nell’omicidio di un magistrato, ci sono indagini in corso». Falcone, insomma, doveva morire. Così aveva stabilito Totò Riina e contraddirlo era fuori discussione. Così, di fatto, è la Sicilia intera a mobilitarsi per farlo fuori. «C’entrano tutte le cinque province siciliane nelle stragi – dice oggi Avola -, ognuno ha dato il suo contributo. Catania, Palermo, Agrigento, Enna e Trapani. Ci sono state delle riunioni, anche le persone che non erano d’accordo hanno dovuto dire sì e inchinarsi al volere dei corleonesi. Il primo contrario era Nitto Santapaola, così come altri in altre province. In ogni caso, non si uccide un magistrato così, Cosa nostra è organizzata, ci sono state delle riunioni prima, tutti sapevano».

Prima ancora della strage di Capaci, si parla anche di altri attentati a firma Cosa nostra. È per questo che Avola il 17 maggio ’92 è in missione a Firenze, con lui in albergo c’è anche la moglie, che gli fa da alibi. Sta lì solo per 24 ore circa, mandato da Ercolano. «Era arrivata la direttiva dai palermitani che si dovevano colpire degli obiettivi in Nord Italia, prima ancora delle stragi – dice -. Sono andato a guardare una piazza dove c’è la statua di Donatello, c’erano chiese, c’erano altre cose, ma l’obiettivo era far risaltare…. insomma, credo che non volevano fare morti, ma c’è stato un errore di fondo, forse non conoscevano bene quell’esplosivo. Dopo quel giro, sono andato a vedermi la Formula Uno a Imola». «I magistrati dell’epoca – aggiunge più avanti – mi parlavano di servizi segreti, di cose così, ma io insistevo che era tutta opera di Cosa nostra. Nel ’94 c’era un’altra aria – dice oggi Avola -, sembrava che dovevo dire quello volevano loro, questa era la mia impressione. Parlai di questo forestiero già all’epoca, ma mi dissero che per noi catanesi i forestieri sono tutti quelli che stanno fuori Catania. Mi sembrava che non ci fosse interesse per quello che stavo dicendo, puntavano più su altro, su cose politiche».

Per questo di certe cose e di certi dettagli avrebbe ripreso a parlare coi magistrati solo da qualche anno a questa parte. «Io dallo Stato non c’ho niente, non c’ho soldi, non c’ho contributi, voglio solo dire alla magistratura cosa so di quegli anni». Eppure, Avola è stato sentito non solo in passato, dopo la sua collaborazione. Ma anche nel 2015, in occasione di questo stesso processo, celebrato in primo grado: «Io stavo collaborando per le cose del ’94 ancora – dice -, non dicevo e non aggiungevo nient’altro. Ora ho deciso di farlo perché sto parlando dell’omicidio Scopelliti, delle stragi e di altro anche. Io mi sono fatto quasi trent’anni e non ho chiesto nessun contributo o sconto per le mie dichiarazioni».


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