L’appalto perso col sorteggio e avuto da Cosa Nostra «Pippo Molino? Per il clan andava a riscuotere il pizzo»

Un modo per rimettere la sorte sulla strada giusta, quella che avrebbe portato a mettere le mani su oltre un milione e mezzo di euro di lavori. Un pomeriggio del 2006, nei dintorni di Barcellona Pozzo di Gotto, un imprenditore di Terme Vigliatore viene convocato da tre persone in un’officina. 

Si tratta di Carmelo D’Amico, Tindaro Calabrese e Filippo Milone, tutti esponenti dei Barcellonesi, il clan che da decenni controlla l’area tirrenica del Messinese intrattenendo rapporti con le famiglie di Cosa nostra. Dai Santapaola a Catania ai palermitani Lo Piccolo. Se c’è uno più interessato degli altri all’incontro, quello è Milone. Suo genero Pippo Molino – l’imprenditore a cui ieri la Dia ha congelato un patrimonio di oltre sette milioni, già oggetto l’anno scorso di sequestro penale – è attivo nel settore edile e in particolare è interessato ai lavori che la società di Terme Vigliatore ha ottenuto in subappalto dalle due imprese che, qualche tempo prima, si sono aggiudicate la gara indetta dal Comune per i lavori di realizzazione della fognatura nell’ambito del risanamento dei torrenti Longano e Idria. Per essere più precisi, l’impresa di Molino – la Gramey srl – aveva anche partecipato alla gara d’appalto, offrendo la stessa, identica percentuale di ribasso dei vincitori. A quell’insolito pareggio era seguito un sorteggio che non aveva sorriso alla Gramey.

Nonostante ciò Molino, che ad aprile è stato condannato in primo grado a undici anni nel processo Gotha VII, avrebbe pensato di non cedere il passo alla sfortuna, presentandosi nell’ufficio dell’imprenditore che nel frattempo aveva ottenuto il subappalto. L’allora 47enne avrebbe fatto presente che, essendo di Barcellona, parte dei lavori gli sarebbero spettati a priori. A spingere affinché un accordo venisse trovato sarebbe stato anche il titolare di una delle ditte vincitrici. «Dopo circa una settimana o quindici giorni dalla aggiudicazione – ricostruisce il tribunale di Messina – venne contattato dall’ amministratore della società, il quale gli riferì che aveva subito delle pressioni da parte di persone di Barcellona per l’esecuzione di quei lavori». Si arriva così all’incontro a quattro nell’officina. A organizzarlo è Tindaro Calabrese. L’uomo avvicina l’imprenditore e, pur facendogli presente che una soluzione andava trovata, lo rassicura specificando che non dovrà rinunciare all’intero sub-appalto ma solo a una parte. Il concetto viene ribadito il giorno del confronto anche da D’Amico e si finisce così per concordare una cessione del 40 per cento dei lavori.

I Barcellonesi, tuttavia, non mollano la presa. Perlomeno per quanto riguarda il pizzo da imporre a chiunque faccia lavori sul territorio e tornano a presentarsi dall’imprenditore di Terme Vigliatore per esigere il due per cento. Una vera e propria tassa, che in un primo momento cercano di ottenere anche sui lavori ceduti a Molino, senza però riuscirci. A quel punto D’Amico va a cercare Molino a casa del suocero, con il preciso obiettivo di recuperare la somma. Ma a intervenire è proprio Milone. «Contestai al Molino che doveva pagare non già una percentuale sull’importo dei lavori pari al due per cento ma semplicemente 20mila euro, ciò in quanto il Molino era un affiliato – racconta D’Amico ai magistrati – ma intervenne iI suocero, il quale ci disse di non chiedere nulla al genero, visto quello che aveva fatto durante il processo Mare Nostrum, mantenendo con i proventi dell’estorsione moltissimi esponenti della nostra organizzazione».

Stando a quanto messo a verbale dai collaboratori di giustizia, Molino per anni si sarebbe prestato anche a riscuotere direttamente le estorsioni da diversi imprenditori. Specialmente nella fase in cui i referenti del clan erano stati messi fuori gioco dalle inchieste della magistratura. «Dopo l’operazione Mare Nostrum, il denaro venne ritirato da Pippo Molino perché Sam Di Salvo era latitante. Molino i proventi dell’estorsione li consegnava a Filippo Milone», rivela D’Amico. Tra le vittime da cui l’imprenditore sarebbe andato a recuperare denaro per conto del clan ci sarebbero stati rivenditori di materiale edile ma anche i titolari di depositi di videogiochi. Questo genere di servizio Molino lo avrebbe portato avanti sino alla fine degli anni Novanta. Perché, sostiene ancora D’Amico, a un certo punto avrebbe iniziato a occuparsi «di turbative d’asta».


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