Da Cosa nostra alle indagini sui sistemi di potere, la banalità dei sentimenti è stata sdoganata. «Sono prova di affidabilità di legami in cui il tradimento può rivelarsi pericoloso», commenta a MeridioNews l'esperto Salvatore Di Piazza, ricercatore dell'università di Palermo
La tenerezza e i nomignoli del linguaggio criminale Fra «ti voglio bene», «amore» e le emoji sui social
«Vita», «amore», «ti voglio bene». Sono alcune delle parole e delle espressioni pregne di sentimento che cozzano con l’ambiente in cui vengono utilizzate: quello criminale. È dall’analisi di stralci di conversazioni private e da alcuni profili pubblici su Facebook che emerge un uso ricorrente di queste terminologie. «I nomi vezzeggiativi che spesso criminali di diverso rango utilizzano sono in netto contrasto con il modus operandi e con la rappresentazione di uomini duri che cercano di imporre di sé all’esterno. Questo – commenta Salvatore Di Piazza, ricercatore in Filosofia del linguaggio del dipartimento di Scienze umanistiche dell’università di Palermo – crea una discrasia che, comunque, esiste in tutti gli ambienti della società ma che stupisce certamente di più in contesti legati alla delinquenza comune o alla criminalità organizzata».
È il caso di
Luca Marino, il 36enne catanese arrestato durante il blitz dello scorso novembre nell’operazione Chaos, insieme ad altre 29 persone con le accuse di estorsioni, intimidazioni, un sequestro di persona e vari reati in materia di armi. Ritenuto affiliato alla famiglia dei Santapaola-Ercolano, Marino ha alle spalle una vecchia condanna in Appello per omicidio. Il giovane rampante della malavita catanese, ora accusato di essere il vertice del gruppo di Cosa nostra del quartiere di San Giovanni Galermo di Catania, si rivolge al suo braccio destro chiamandolo «vita», un po’ come fanno gli innamorati. «Fa pensare – dice Di Piazza – alla volontà di sancire una relazione fiduciaria. Di manifestare chiaramente l’appartenenza a un nucleo quasi familiare, il sentirsi parte di un intento comune, una prova dell’affidabilità che è determinante nei rapporti della malavita dove – continua il ricercatore – è altissima la probabilità di un tradimento che potrebbe addirittura portare alla morte o al carcere».
L’utilizzo di vezzeggiativi o espressioni, che nel senso comune sono ritenuti più vicini al femminile, in ambienti in cui a farla da padrone è il machismo, può avere diverse interpretazioni. «Da sempre – analizza Di Piazza – la mafia utilizza una certa terminologia con l’intento di far emergere il forte valore dei legami di tipo familistico». La cosca diventa famiglia, alcuni si baciano addirittura sulle labbra e molti sodali per rivolgersi ai boss di riferimento usano il termine «zio». «Il senso è quello di accentuare un aspetto di vicinanza fraterna, di ribadire un’assoluta fedeltà indispensabile nella condivisione degli intenti criminali e, qualche volta, anche di sottolineare un rapporto di sottomissione o di riverenza», va avanti l’esperto.
Quando nel novembre del 2007 vengono ritrovati alcuni bigliettini con i rendiconti del pizzo nel Palermitano, non mancano scambi di affettuosità. Il latitante
Sandro Lo Piccolo risponde con toni accorati a Francesco Franzese, suo reggente per la zona di Partanna-Mondello: «Io, caro figlioccio del mio cuore, sapendoti con i tuoi felice sarò altrettanto felice pure io!!! […] Concludo mandandoti da parte di tutti tantissimi cari bacioni. Ti mando un milione di baci e abbracci e baci. Più bacetti per i piccoli… affettuosissimo abbraccio per tua moglie». Firmato: «Il tuo padrino. Ti voglio bene». Valanghe di tenerezza dai luoghi di latitanza. Altre lettere, Lo Piccolo le scrive alla sua amante ma utilizzando un linguaggio diametralmente opposto. «Nel rapporto intimo infatti – osserva Di Piazza – il latitante parla con addosso i panni di padrino ieratico e ricalca le espressioni che con lui utilizza Bernardo Provenzano: inizia con formule che rimandano alla dimensione religiosa (“Il signore ti benedica“, ndr) e continua con una formalità linguistica che cozza con la relazione amorosa», spiega Di Piazza. Un incrocio in cui si confondono i ruoli di boss e amante affettuoso.
La criminalità organizzata mostra di essere al passo con i tempi. Non solo parole per comunicare i sentimenti, ma anche emoji con cuoricini e faccine sorridenti sui social network. «La mafia non è fuori dalla società, ma è perfettamente inserita in tutte le dinamiche. I social, negli ultimi anni, hanno molto contribuito alla diffusione di un linguaggio affettato», sottolinea Di Piazza. Il tutto avviene senza curarsi del fatto che i profili siano pubblici. «Questo stupisce e stona di più perché, in contesti come questi, la parola pubblica ha un peso maggiore ed è quasi temuta per questioni di segretezza. A quanto pare, però – aggiunge l’esperto – è più forte la volontà di manifestare vicinanza e fratellanza, rispetto al problema di un’interpretazione esterna che potrebbe anche essere equivocata e far pensare a tendenze omosessuali. Tutte le relazioni e il modo in cui si manifestano attraverso il linguaggio sono complesse ma ancora di più lo sono quelle che hanno a che fare con il potere».
Ma le esternazioni sdolcinate e innaturali non sono solo appannaggio degli ambienti legati a Cosa nostra. Anche in altre inchieste che hanno fatto emergere sistemi di potere diversi si trovano infatti passaggi in cui gli indagati mostrano una propensione all’uso di frasi più o meno sdolcinate. Ancora un altro «ti voglio bene», per esempio, si trova nelle intercettazioni dell’indagine Double face, in cui è coinvolto anche Antonello Montante. «Scusa se ti disturbo, ho mio figlio che mi marca stretto perché è a casa senza fare niente. Tvb». È un imprenditore a vedersi recapitare sullo schermo del proprio cellulare un messaggio scritto non da un giovane in cerca di lavoro, ma dal padre 58enne. Reciproche sono le esternazioni di affetto tanto che, nella telefonata per gli accordi conclusivi, l’imprenditore ricambia chiamandolo «amore». «In episodi come questi in cui c’è una evidente richiesta di favori o in casi di ricerca di approvazione – conclude il ricercatore – non è da escludere anche una sorta di captatio benevolentiae». O di banalità del bene.