Prima di tornare a prendere in mano le redini del mandamento, il leader degli ortodossi aveva risposto all'ascesa delle nuove leve di Cosa Nostra esiliandosi a Firenze. Una scelta sofferta, che lo porta spesso a lunghe chiacchierate con interlocutori immaginari
La solitudine del boss e i monologhi con se stesso Così Caporrimo aiutava gli investigatori senza saperlo
Se c’è qualcuno che la mafia odia in modo particolare è chi parla troppo. Nel mondo di Cosa nostra meno si parla, meglio è. E questo lo dicono anche i boss incastrati da una telefonata di troppo, da una confidenza in più, per questo sono nati linguaggi in codice, spesso a dire il vero neanche troppo difficili da decifrare. Di certe cose è meglio non parlarne, nemmeno con se stessi. E ne ha imparato le conseguenze Giulio Caporrimo, boss di Tommaso Natale e custode di quell’ortodossia mafiosa che ha riportato tra le vie dello Zen dopo l’uscita di scena delle nuove leve e della loro Cosa nostra smart, che non ha avuto vita lunga. Prima di tornare a prendere ciò che reputava suo, Caporrimo aveva scelto l’autoesilio in quel di Firenze, in un appartamento tranquillo in periferia, a due passi dall’Arno, che però non riusciva a lenire il dispiacere per la lontananza forzata da casa e soprattutto dagli affari della famiglia, tanto che il boss non solo si arrabbiava, ma ne parlava, ne parlava molto. Da solo.
Caporrimo soffriva la solitudine, ma rifiutava l’aiuto persino di Giuseppe Vassallo, finito in manette nel blitz di ieri, uomo vicino alla famiglia e residente a Firenze, che oltre a tenere informato il capomafia delle evoluzioni sullo scenario della Cosa nostra palermitana, si era anche offerto di fargli compagnia. «Se per dire uno so che è solo e io ho la possibilità di starci vicino, mi fa piacere – diceva – Perché purtroppo quello che tu stai facendo da solo qua io l’ho fatto prima di te e lo so ce certe volte … dice, minchia, questa giornata è domenica, devo stare da solo dentro?». Perentoria la risposta di Caporrimo: «Ma io ci sono abituato ‘o frati», ma il boss non era del tutto sincero. Nei giorni precedenti al ritorno a Palermo di Caporrimo, nel suo appartamento fiorentino, gli inquirenti hanno registrato decine di monologhi in cui il boss di Tommaso Natale non solo sfogava la sua ira, ma intratteneva discussioni immaginarie con i suoi fedelissimi, persino con uno degli uomini che l’hanno arrestato in precedenza.
E quando si cimentava nei suoi monologhi, il boss, non risparmiava niente e nessuno, parlava apertamente. Come quella volta che immaginava di discutere con alcuni suoi sodali di cui non fa il nome, di due fratelli, anche loro suoi ex uomini di fiducia, che avevano commesso l’errore di avere assecondato la politica di Francesco Palumeri, il nuovo capomandamento, l’avversario di Caporrimo, responsabile del suo esilio. «Sono sbirri, sono sbirri tutti e due – sbotta il boss – Mi hanno messo gli sbirri di sopra, c’è da stare attenti. Se esce tuo fratello il primo bordello lo combina con te, il secondo lo combina con me e io sono con lui, non ti preoccupare». Pochi giorni dopo il capomafia in esilio se la prende con la neo costituita commissione provinciale, rinata sotto la guida di Settimo Mineo con uno stile che all’ultraortodosso Caporrimo proprio non piaceva.
Tant’è che lamentava spesso la distanza rispetto al rigore delle regole originari di Cosa nostra. «Devono sciogliere la commissione – diceva al suo interlocutore immaginario – Ho lasciato l’immondizia perché ormai l’immondizia si è organizzata, hai capito? Eh, ma sono sbagli che si fanno». Il riferimento, quando parla degli sbagli, è alla troppa fiducia concessa a soggetti ritenuti poco affidabili, «Che po a loro gli conviene. Io li lascerei giocare – continua – Appena arriva qualcuno che ha ambizione, con i soldi, con l droga dello Zen, di dove minchia è, li butta a terra. Succede il bordello. Sta cosa di Palermo, io gliela faccio fare, cerco di farlo, quando doveva discutere i problemi, difetti e gli sbagli che aveva fatto hanno voluto a me. Ma di consiglieri non ne abbiamo bisogno, lo sai perché? Perché questo vanno cercando nell’immondizia, non avete bisogno di un consigliere, avete bisogno di Padre Pio!». Un modo come un altro per dire che per restare in sella, i suoi successori, avrebbero avuto bisogno di un miracolo.
Caporrimo parla idealmente con Michele Micalizzi, pezzo grosso del mandamento, reo anche lui di avere portato dentro una persona poco affidabile: «Tu qua non hai più niente da fare, qua dentro questa casa. Miché, parliamoci chiaro, io ti sto parando il culo, se te lo posso parare e ti ho detto di non scendere perché c’erano morti da vurrichiari sopra di te. Pure sopra i nuovi, gli Inzerillo. Ho discusso tutte cose, ma vedo che tu vai, vai dritto, Michè, tu vai per i fatti tuoi – e ancora – Te lo spiego in un’altra maniera, Michè. Ma tu la sai Cosa nostra? A te non ti pare che non c’è nessuno, io ti lascio convincere così. A te ti pare che non c’è nessuno per ora! Michè, io sto capendo che tu vai girando ovunque con quale autorizzazione al mandamento non si capisce».
Gli sfoghi più importanti, comunque, hanno spesso come destinatario Palumeri, che oltretutto pare non inviare o comunque ritardare nell’invio del vitalizio pattuito. «Io a questo ci sparo – diceva spesso – E poi vedi. Io ho l’impressione che ci sparo, perché se no i guai un altro rompimento di minchia di questi, lui e suo padre, siete due truffaldi, tuo padre fa il truffaldo e fai finta di niente. Sei abusivo! E ora ti metto fuori famiglia io».